Foto Publifoto Press Torino/LaPresse

La prima parola sbagliata di Piazza Fontana

Marco Archetti

12 dicembre 1969. Cinquant'anni fa la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. Il racconto di quella giornata in un monologo scritto da Marco Archetti

L’articolo qui pubblicato è un riadattamento per il Foglio tratto dal monologo “La parola giusta”, scritto dallo stesso autore e interpretato da Lella Costa e commissionato dal Piccolo di Milano e dal CTB di Brescia per gli anniversari delle stragi di Piazza Fontana e Piazza della Loggia.


 

Milano, 12 dicembre 1969. Alle quattro del pomeriggio io ero in piazza Fontana. Passeggiavo e mi sentivo sola in quel quasi-Natale, in quella Milano freddissima. I lampioni erano rimasti accesi dalla mattina e tremolavano nella pioggia. C’erano gli zampognari, che – diciamolo – già di per sé fan venire un certo magone, e c’erano anche i caldarrostai, che si fregavano le mani sopra le loro grandi padellone fumanti. Il padellone ce l’avevo anch’io, sottobraccio: Led Zeppelin II. Oddio, diciamo che se fosse stato per me, ad Antonio avrei regalato “Abbey Road”, ma per lui i Beatles erano troppo sentimentali… Ricordo che ho guardato l’ora, era ancora presto. Mi sentivo tanto sola perché il giorno dopo io sarei tornata per il fine settimana al mio paese, Besana, in the middle of Brianza, e lui sarebbe partito la domenica mattina per Prignano Cilento, dato che non vedeva i parenti da quell’estate… insomma, ci conoscevamo da pochissimo e già non ci saremmo rivisti fino a dopo Natale. E io, a quel punto, lo so come va a finire. Va a finire che l’unico rimedio per il magone è: cioccolata calda. Dalla banca Antonio sarebbe uscito alle quattro e mezza. Lavorava al Banco dell’Agricoltura, sede centrale, assunto da soli due mesi dopo un colloquio. Del resto il cugino Tullio, che già lavorava a Milano, gli aveva detto la cosa giusta: “Prendi il diploma giù, poi vieni quassù, che qui hanno fame di ragionieri e ti assumono anche se vieni da fuori”. Così io e Antonio ci eravamo conosciuti lì, perché io, il venerdì, accompagnavo mio padre per il mercato degli agricoltori. Insomma, tempo ne avevo.

 

Al bar, prima pagina del Giorno, leggo che presto l’Università sarebbe stato un diritto per tutti, cioè per chiunque in possesso di qualunque diploma. E che a breve sarebbe diventato legge anche lo statuto dei lavoratori. Scorro le prime righe, e madonna, mi sembrava di sentire la sua voce! Perché la sera prima, al telefono, Antonio mi aveva sfinito e mi aveva raccontato che proprio lì, nel salone della banca, aveva preso per la prima volta la parola all’assemblea. E aveva detto: “La Costituzione dice che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro… Può, forse, il lavoro, essere fondato su una legge ingiusta?” Aveva una grande passione per le domande retoriche, Antonio, che poi è la passione tipica di chi vorrebbe che il mondo fosse un posto logico. Ma il mondo è mai stato un posto logico?

 

Io, il 12 dicembre del 1969, ho 17 anni. Ed esco dal bar alle quattro e venti. E penso che ad Antonio sto cominciando a voler bene veramente, soprattutto grazie alle sue fissazioni. “Ti rendi conto di quel che c’è in ballo? Una questione storica, capisci, no? Il rinnovo di trentadue contratti collettivi per cinque milioni di persone!” sbraitava costringendomi ad andare a volantinare alla Breda, poi veniva con me all’albergo Commercio. In realtà l’albergo Commercio non si chiamava più albergo Commercio: da quando l’avevamo occupato, si chiamava “Casa dello studente e del lavoratore”. Fuori, sopra il portone, c’era un tadzebao: “I muri esterni sono i nostri giornali, intacchiamo il monopolio dell’informazione!” E a me, che dire? A me sembrava una poesia di Majakovskij… Ma adesso, a distanza di cinquant’anni, come posso spiegarlo quel 12 dicembre che ha cancellato i miei diciassette e i suoi diciannove? Cosa c’è da raccontare?

 

Sette chili di tritolo lasciano un buco per terra, una voragine, un pozzo senza fondo, dove prima c’era un tavolo ottagonale di mogano. L’aria sospesa ma ancora furiosa, perché quello che era accaduto sembrava non avesse finito di accadere, era ancora lì, in un tempo curvo e bruciato. Fumo e sedie capovolte, armadi fracassati e vetri in frantumi, telescriventi schiantate e centomila fogli a terra, sparsi… E poi lenzuoli bianchi a coprire sedici persone. E uomini che si aggirano e non sanno cosa fare, cosa dire. Uomini che si guardano spaesati, stretti nei loro cappotti mentre vagano tra le macerie di una guerra. Un prete che benedice e uomini che fanno avanti e indietro tra i feriti, tra i morti. E fuori dalla banca, in piazza Fontana, gente che si sente dentro anche se sta fuori. Una bomba tra i regali di Natale, tra le sportine, sotto il tavolo di una banca, tra gente che era solo gente... Rivedo me stessa, rivedo noi. Noi che non comprendiamo più nulla, che non possiamo fare nulla. Noi che, quella sera stessa, brancoliamo ancora stravolti intorno alla prima parola sbagliata: caldaia. Le prime voci dicevano che era scoppiata una caldaia, si trattava di un incidente, cos’altro avrebbe potuto essere? So solo che io, quando riapro gli occhi, non capisco. Metto a fuoco la faccia di mio papà, poi la faccia di mia mamma. Mia madre che mi tiene la mano e mi dice di star calma. Io, il 12 dicembre del 1969, ho 17 anni. E sono in ospedale. E non ho niente di serio, solo tanto spavento… E Antonio? Dov’è Antonio? Ecco, qual è la parola giusta per raccontarlo, un momento così? Perché se “caldaia” è la prima parola sbagliata, Milano, quel giorno, è sotto choc e la parola giusta non ce l’ha. E allora fa una cosa immensa, Milano: decide di tacere. E tace. Tre giorni dopo, il 15 dicembre, ai funerali, in 200 mila restiamo in silenzio.