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Il romanzo “Fedeltà” di Marco Missiroli fa bene il suo mestiere

Marco Archetti

L'autore traccia l’elettrocardiogramma di un’epoca piena di incertezze ridicole e profonde

A proposito di ciò che ho potuto imparare dalla grande letteratura, sono anni che ho adottato il codice-Herzog (nel senso di Saul Bellow): vivo ascoltando la signora Tuttle che spazza il vialetto, mi abbandono alla luce che filtra dalla persiana, mi godo il pulviscolo della vita e il significato che in controluce vi danza, e che non spartisce con me alcun alfabeto. E infatti eccola, l’esistenza, la assumo per trasalimenti, pronta com’è, finalmente, a rivelarmisi in tutto il suo pieno: vuota, e splendida.

 

Tuttavia, in questo tentativo di appartenere sempre di più a essa e sempre di meno a me – in questo tentativo di ridimensionare il raziocinio in favore dell’abbandono panico – i problemi non sono finiti, anzi, spesso ci ricasco e torno alle domande. Una riguarda la mia attitudine passata, e mi chiedo: questo aver ridotto la vita a “rielaborazione razionale della vita”, era un modo di aggirarne la brutale estemporaneità, un artificio per rifiutarne la polpa più ardente e dolorosa, uno stratagemma grazie al quale mettermi al riparo dalle crudeltà fulminanti che ogni giorno ci toccano anche quando ci sfiorano? Un’altra domanda riguarda invece la mia attitudine presente, e mi chiedo: ma questo codice-Herzog? Questo abbandono vertiginoso al mistero dell’esistenza non potrebbe essere, semmai, un modo per dichiarare resa all’intelligenza, resa alla messa in questione del mio modo di vivere e di stare al mondo?

 

Non so quale sia la risposta, ma ho sentito i motori dubitativi riaccendersi tutti d’un colpo. La ragione è stata la lettura di “Fedeltà” (Einaudi, 224 pp., 19 euro), il nuovo libro di Marco Missiroli, un romanzo che fa bene il suo mestiere. Lo fa perché non è semplicemente un racconto o una storia tra due città – una storia tra due tempi di se stessi – ma perché è un labirinto secco con un filo narrante/esistenziale che cerca continuamente di venirne a capo, una macchina verbale che pagina dopo pagina, con la sua orologeria interrogativa, impone un climax implacabile. Ma andiamo con ordine. La storia è questa: lui, lei, l’altra. E gli altri. Lui è Carlo Pentecoste, insegnante universitario per merito del padre. Lei è sua moglie Margherita, agente immobiliare. L’altra è Sofia, studentessa e scrittrice di una sola storia, in compagnia della quale Carlo è stato sorpreso in circostanze imbarazzanti. Gli altri sono gli altri, cioè tutto il resto: gli altri nel loro fondale, gli altri e il rondò delle cose che ci raggiungono febbrilmente attraverso di loro, la musica con cui ci girano intorno mettendo in crisi le nostre partiture individuali, le nostre rime consuete.

 

Gli altri sono il massaggiatore Andrea e i suoi segreti, l’eventualità che rappresenta agli occhi di Margherita – “le voglie sconfinano” – e poi un’edicola-simbolo, una città buzzatiana, e i fatti di ogni giorno che incrociamo mentre siamo invischiati nelle nostre domande. Non si commetta l’errore di unire i puntini e di pensare alla solita commedia, perché tra Carlo e Margherita, tanto per cominciare, non c’è nulla che vada male al punto da far pensare a un tradimento. Al contrario, è proprio da questo presupposto che la storia libera la sua forza: i dubbi ci sono indipendentemente. Ci riconosciamo sempre quando ci guardiamo allo specchio? Sappiamo dare un nome ai nostri desideri e ai nostri atti? E i guai cominciano quando ci si chiede troppo o troppo poco? Quando ci si interroga o quando non ci si interroga? Come possiamo conciliare noi con noi e con tutto il resto? Codice-Herzog o codice-Carlo? Dichiarare resa alla comprensione o insistere a volersi riconoscere anche nel matrimonio, che è una faccenda tra i mille te e i mille sé di un altro?

  

Va detto: il romanzo è uno di quelli che si prende la briga di rispondere. E seppure per parlare di fedeltà parla dell’apparente suo contrario (degli apparenti suoi contrari), il senso delle pagine si snoda lentamente e muta prospettive, così Missiroli non solo racconta gli uomini alle donne e le donne agli uomini, ma traccia l’elettrocardiogramma di un’epoca come questa, di incertezze a volte ridicole e a volte profonde, ma barcamenarsi tra ridicolo e profondità non è, forse, il cimento che ci tocca da sempre? Per questa ragione, nonostante “Fedeltà” non si possa definire romanzo corale in senso stretto, mentre lo si legge si avverte una molteplicità: quella delle voci interiori.

 

Ognuno, tra queste pagine, ritroverà la polifonia di se stesso, del proprio tribunale interiore o esteriore – “il corpo come tribunale” si dice a un certo punto. Ognuno ritroverà le lettere d’aria che scrive agli altri e a sé. L’abilità di Missiroli è farle emergere e saper presentare in scena e accompagnare i suoi personaggi annodandone e snodandone le traiettorie, abbandonando quello che sembrava il filo principale e allacciandolo a un altro, a un altro personaggio, portandoci a seguire questo e lasciando sul posto il primo, in un movimento arioso e felice di collaborazione tra adesione e sorvolo. (Certo, a volte l’ariosità appare forse troppo sorvegliata, e anche se trattasi di pagliuzza nell’occhio di un libro che ci vede benissimo, viene da augurarsi che l’autore si abbandoni di più, accettando qua e là piccoli sviamenti a vantaggio di ulteriori preziosi reperti).

 

Vivere – ci dice Missiroli – è fissare la finestra ricordando “lo stesso scorcio, ma tre piani sopra”. Vivere è riesaminare la vita per un significato che sta tra quel che eravamo e quel che siamo. Vivere è una donna che, durante l’amore, ti rivela che è attratta da un altro mentre tu non sai se sentirti eccitato o distrutto. E se sappiamo di essere vivi sbagliando, forse dobbiamo abbandonare l’ossessione che facendo quella giusta siamo morti: perché “scopare è bellissimo”, ma convivere con le proprie domande, portarne il fardello senza rallentare, e riuscendo, anzi, a non sentirlo più e a farlo sparire, continuando a camminare sul filo teso tra noi e noi, è l’unica opzione degna dell’essere uomini. Per essere fedeli anche – e soprattutto – a noi stessi.

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