Anis Amri, attentatore di Berlino

Storie horror di intelligence guasta

Daniele Raineri

Così la sicurezza in Belgio e Germania è stata battuta dall’Isis

Roma. Giovedì e venerdì il Wall Street Journal ha pubblicato due pezzi che riguardano i fallimenti dei servizi di sicurezza in Belgio e in Germania e la loro incapacità di prevenire gli attacchi dello Stato islamico in Europa. Le due storie hanno un elemento devastante in comune: belgi e tedeschi avevano già inquadrato da molto tempo i futuri autori delle stragi – la doppia bomba a Bruxelles del 22 marzo e la corsa con il Tir a Berlino il 19 dicembre – sapevano chi erano, li avevano sorvegliati, avevano capito che erano elementi pericolosi e li avevano inseriti in liste apposite di persone legate al terrorismo, ma poi – nella fase cruciale delle indagini, quando si era trattato di prendere una decisione – avevano lasciato perdere e se li erano lasciati sfuggire. C’è anche un altro elemento in comune: i servizi di sicurezza dei due paesi non sono stupidi o disattenti come parrebbe dalle ricostruzioni fatte a posteriori, ma lasciano perdere perché sono sopraffatti dal numero di casi pericolosi che devono sorvegliare. Questo vuol dire che non puntano uno stragista perché sono dietro ad altri soggetti che sembrano ancora più pericolosi. C’è anche un terzo elemento, questo di inefficienza: non esiste un database condiviso dei probabili terroristi, e in Belgio per controllare se una persona è “pulita” o no tocca provare il suo nome in venti archivi elettronici diversi. Se non lo fai in tutti, come spesso succede, rischi di non vedere l’informazione decisiva.

 

I servizi di sicurezza tedeschi si sono riuniti sette volte per discutere il caso del tunisino Anis Amri, che a dicembre si è impadronito di un Tir e lo ha guidato contro la folla di un mercatino di Natale. Già alla fine del 2015 Amri, che aveva usato uno stratagemma e si era registrato con quattordici identità e nazionalità arabe diverse in altrettante regioni della Germania, talvolta a meno di un giorno di distanza (un escamotage che da solo dovrebbe far partire un allarme), era finito in un elenco di persone pericolose perché un compagno di stanza aveva detto alla polizia che teneva sul telefonino foto di uomini vestiti in nero e armati, e anche un infiltrato nel network estremista tedesco lo aveva segnalato.

 

Era stato poi intercettato mentre cercava su internet istruzioni per costruire bombe e parlava di fare una rapina per acquistare armi. A febbraio i primi tre incontri degli investigatori per valutare il suo caso, seguiti da altre tre riunioni ad aprile, giugno e novembre. A ottobre i servizi segreti tunisini e marocchini avevano detto ai tedeschi che Amri aveva contatti con lo Stato islamico, anche in Europa. Su una scala di pericolosità che va da otto a uno (dove uno è il livello più pericoloso), Amri era un cinque – ancora non sufficiente per un arresto (chissà se ci sono “quattro” e superiori in circolazione). Il caso del Belgio con i fratelli Brahim e Salah Abdeslam – coinvolti nelle stragi di Bruxelles e di Parigi – è di nuovo un racconto di chances mancate.

 

Il Wall Street Journal ha visto il rapporto di 82 pagine scritto dal Comitato P, una commissione di ex magistrati e poliziotti che deve capire cos’è andato storto prima delle stragi di Bruxelles. I due terroristi sono stati fermati dalla polizia a inizio 2015, segnalati come pericolosi e interrogati, e se la sono sempre cavata con risposte false che sarebbe stato facilissimo smascherare. A febbraio la polizia aveva sequestrato nella macchina di Brahim una chiavetta elettronica che conteneva elementi decisivi, ma l’ha esaminata soltanto dopo le stragi. Persino l’indirizzo mail dato da Brahim ai poliziotti era falso: [email protected]. Un mese prima dell’attacco a Parigi Salah ha messo come immagine profilo su Facebook la bandiera dello Stato islamico, senza conseguenze. Il suo nome era su una lista che imponeva alla polizia di segnalare quando varcava un confine, ma non di fermarlo. Così quando è fuggito da Parigi dopo la strage, è stato identificato a un posto di blocco e fatto passare. 

Di più su questi argomenti:
  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)