Carles Puigdemont (foto LaPresse)

Il mite oltranzista Puigdemont è pronto a tutto per l'indipendenza

Eugenio Cau

Chi è il presidente della Generalitat della Catalogna che si batte per salutare la Spagna

Roma. Negli ultimi giorni, il profilo Twitter di Carles Puigdemont è più controverso di quello di Donald Trump. Mercoledì ha pubblicato il link a un’app per smartphone con cui i catalani potranno vedere minuto per minuto dove saranno i seggi per votare al referendum indipendentista di domenica. Giovedì, ha rituittato un video clandestino del suo portavoce in cui si vedono grosse stampanti industriali stampare a gran velocità (e soprattutto in gran segreto) le schede elettorali. Venerdì ha diffuso le immagini delle urne per il referendum, di plastica e comprate dalla Cina, che la Guardia civil di Madrid sta cercando febbrilmente nel tentativo di bloccare il voto. Nel frattempo, Puigdemont scrive e rituitta polemiche, invettive, argomentazioni accorate e posizioni di sostegno in favore della causa secessionista catalana. Appena un anno fa, nessuno avrebbe immaginato che questo politico catalano con zazzera beatlesiana e sguardo apparentemente fisso e mite (in realtà Puigdemont ha l’occhio sinistro danneggiato da un incidente automobilistico avuto in gioventù) sarebbe diventato un capopopolo trascinatore di folle.

 

Il carisma non è la sua dote di spicco, e il suo arrivo al Palau della Generalidad, il palazzo del governo catalano a Barcellona, non è il risultato di una brillante scalata al potere ma di un traccheggiamento politico. Dopo le elezioni del settembre 2015 Artur Mas, il predecessore di Puigdemont, aveva bisogno dei voti del partito vetero-maoista Cup per tornare al governo, ma la Candidatura di unità popolare (Cup) mise il veto sulla sua persona. Così il liberale-indipendentista Mas e i maoisti-indipendentisti della Cup si sono accordati su un nome terzo, l’apparentemente anonimo Puigdemont. Molti corrispondenti stranieri hanno dovuto googlare chi fosse quando Mas l’ha presentato come suo successore, e anche in Spagna tutti hanno faticato a prenderlo sul serio fin quasi alle fasi ultime e recenti della crisi catalana. Il mite Puigdemont lo disse fin dal suo primo discorso come governatore: sono stato eletto con una piattaforma indipendentista, porteremo la Catalogna all’indipendenza – ma per mesi nessuno gli ha dato davvero retta, nemmeno quando la sua maggioranza al Parlament di Barcellona approvava le linee guida del referendum, nemmeno quando pubblicava il quesito referendario. Il governo di Madrid era convinto che sarebbe finita come nel 2014, quando Mas tentò di fare il suo referendum e tutto finì in un buco nell’acqua. Questa volta però i tempi sono cambiati.

 

Nato nel 1962 vicino alla città di Girona da una famiglia di pasticcieri, prima di diventare politico Carles Puigdemont è stato giornalista. Laureato in Filologia catalana, ha lavorato in diversi giornali locali, è stato il primo direttore dell’Acn, l’agenzia di stampa ufficiale della Catalogna, e nel 2014 ha fondato Catalonia Today, un giornale in inglese che mira a pubblicizzare la causa catalana a livello internazionale e che oggi è diretto da sua moglie, la giornalista rumena Marcela Topor. Nel 2006 Puigdemont fa il salto nella politica, un anno dopo si candida alla carica di sindaco di Girona per la Convergència i Unió (CiU), la coalizione di Mas. Subisce una prima sconfitta, ma nel 2011 vince e pone fine al dominio trentennale del Partito socialista catalano in città. Da Girona, un anno fa, Puigdemont arriva a Barcellona, ma a Girona rimane: torna a casa quasi tutte le sere, per stare con la sua famiglia.

 

Fin dagli studi e dalla carriera giornalistica, Puigdemont ha sempre avuto ben chiaro che presto o tardi la Catalogna avrebbe dovuto essere indipendente. I suoi colleghi ricordano che durante le riunioni di redazione cercava in tutti i modi di pubblicare articoli pro indipendenza. Ma era difficile pensare che Puigdemont si sarebbe trasformato nel più formidabile difensore della causa catalana. I suoi più famosi predecessori, Jordi Pujol e Artur Mas, erano soltanto autonomisti o, nel caso di Mas, si sono decisi per l’indipendenza soltanto nell’ultima parte della loro carriera. Nessuno aveva la vocazione di Puigdemont e probabilmente nessuno si sarebbe sognato di andare in prigione per la causa (entrambi hanno rischiato, ma per altre ragioni). Puigdemont invece è sempre chiarissimo. Quando i giornalisti gli chiedono se è pronto ad andare in prigione per l’indipendenza, lui risponde di sì, deciso, consapevole che per la causa non valgono più nemmeno amicizie e lealtà. Mentre perfino i suoi compagni di partito dicono che, in caso di fallimento del referendum, bisogna aprire il dialogo con Madrid, lui non esclude la possibilità di una dichiarazione unilaterale di indipendenza: “Qualcuno potrebbe mettere l’opzione sul tavolo”, dice sibillino.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.