Banche Venete e la sclerosi di Bruxelles

Carlo Torino

La Direzione generale per la concorrenza della Commissione eccepisce sulla composizione del fabbisogno di capitale relativo alla ricapitalizzazione precauzionale, e impone un miliardo in più a carico dei privati. Ribaltando le stime della Bce e del Tesoro. Si preannuncia una replica dell'atroce lentezza decisionale che ha già precluso a MPS una soluzione in tempi rapidi. Questa volta i margini sono labili e la questione potrebbe finire male. 

Sulla questione della ricapitalizzazione precauzionale delle due Venete si addensano i timori (legittimi) di chi ritiene che tutto finirà ineluttabilmente come nel caso del Monte dei Paschi: con le autorità di supervisione deputate (Meccanismo di vigilanza e Banca d’Italia) da una parte, Commissione e Ministero dell’Economia dall’altra, impegnate in un’incomprensibile ermeneutica del valore (residuale) dei due istituti. In modo particolare delle esposizione deteriorate: sulla valutazione delle quali pare che la Direzione generale alla concorrenza abbia avuto da eccepire; reputandole notevolmente più basse rispetto a un valore netto stimato (intorno al quale pure si era coagulato un certo consenso) nell’intorno del 40 per cento.


Ricordiamo che in sede di ricapitalizzazione precauzionale – ai sensi della Brrd – si fa riferimento a valori aleatori (estrapolati da stime di mercato, certo, ma con alla base degli assunti relativi a tempi di recupero, valore delle garanzie, ecc, frutto di ipotesi più o meno empiriche). La Dg concorrenza si sarebbe dunque mostrata più conservativa in relazione a tali variabili, lasciando in tal modo emergere un fabbisogno di capitale necessario che sebbene pari a quello originario (6,4 miliardi) è diverso nella sua composizione. In specie, i privati dovrebbero parteciparvi con 1 miliardo in più, riducendo di riflesso il contributo dello Stato da 4,6 a 3,7 miliardi.


Ciò detto, occorre spiegare il presupposto normativo in osservanza al quale la Commissione ha sollevato queste eccezioni. Esso si ritrova in quell’inestricabile groviglio di norme e regolamenti che costituisce la direttiva sul risanamento e la risoluzione delle banche: e ci informa del fatto che lo Stato può intervenire solo su quelle perdite ipotetiche e future. Non può invece risanare quelle che al momento della valutazione erano già realizzate o ragionevolmente prevedibili. È evidente che un tale principio vuole limitare la possibilità che le perdite del sistema finanziario vengano trasferite pro bono sui contribuenti: intento senz’altro lodevole, e in linea con un pensiero che tutela libero scambio e concorrenza.

Senonché una certa sclerosi regolamentare, una per così dire fine a se stessa ossessione legalistica che caratterizza la burocrazia europea sta di fatto distruggendo qualsiasi possibilità che quegli istituti torneranno mai a riveder la luce.
Gli inconcepibili ritardi nella definizione di una soluzione (quando le banche coinvolte sono state di fatto obbligate a redigere piani industriali funzionali esclusivamente all’ottenimento degli aiuti; ossequenti verso le direttive, informalmente espresse, in materia di tagli nel personale, cessione delle sofferenze, ecc … ), incidono in via diretta sulle aspettative del mercato relative alla sostenibilità di quei piani; e tutto ciò in un ambiente normativo incerto pur nella sua stringente iper-regolamentazione. Risultato: quel miliardo privato aggiuntivo non lo si troverà, e quelle banche saranno forse messe in risoluzione dalla Banca d’Italia di concerto col governo. Si tenterà in extremis di tirare per la giacca ancora una volta Atlante, che ha ormai esaurito la sua massa critica (pur non avendola mai effettivamente avuta); e forse Intesa e UniCredit, attraverso il Fondo di Risoluzione. Ipotesi, pura speculazione - concediamolo pure - allo stadio attuale. Ma se la storia si ripete per analogie, null’altro occorre fare se non osservare l’evoluzione della questione del Monte dei Paschi: sette mesi, e un sostanziale nulla di fatto. Risparmiatori, imprese, ceto produttivo, tutti in silente attesa che da Bruxelles o Francoforte arrivino istruzioni (magari comunicate prima a qualche giornale minore di qualche paese Baltico).


È chiaro che la cultura irreparabilmente sensistica della burocrazia europea stia degenerando in un’assoluta indifferenza verso la vita reale; verso i dolori e le gioie dei popoli fatti in carne ed ossa. Stiamo scherzando con le fondamenta del capitalismo, con il sistema bancario e la sua stabilità, che si regge su rapporti fiduciari. Come l’uomo senza qualità di Musil rischiamo di lasciare che una gelida indifferenza morale ci pervada verso ogni aspetto dell’umanità circostante; insensibili a tutto ciò che ci viene imposto dall’alto. E questo perché lo Stato, nella sua evidente impotenza ha smesso di esercitare la sua sovranità su questioni vitali per una nazione: nel bene e nel male.