Fabio for president. In lui forse il trumpismo ha trovato la sua icona

Modello leggendario, idolo biondo di generazioni di casalinghe americane. Il potere ha sempre bisogno di un volto che fissi il canone per l’immaginario collettivo, e vale anche per chi è icona di se stesso

“You’re in my blood, cara mia” (Fabio)


  

L’estetica del trumpismo è stata a lungo orfana di un testimonial. Il potere ha sempre bisogno di un’icona, di un volto che fissi il canone per l’immaginario collettivo, e questo vale anche per chi, come Trump, è icona, brand e direttore del marketing di se stesso. Chiunque posa accanto a lui per un selfie scompare, fagocitato dal carisma o dal ciuffo. Chi è l’uomo (o la donna) che può reggere l’accostamento senza uscirne bruciato o svergognato? Chi ha la faccia abbastanza tosta da incarnare il fenomeno meno amato dalla gente che piace? Quando alla convention del Partito repubblicano Trump non ha saputo trovare una celebrity più significativa di Scott Baio, il Chachi di “Happy Days”, è stato chiaro che la rosa dei candidati era davvero ristretta. Il club delle celebrità trumpiane è talmente esclusivo che nessuno si vuole iscrivere. Dall’altra parte della barricata c’era l’iradiddio che sappiamo: Hollywood, Silicon Valley, Wall Street. I vecchi e nuovi padroni dell’universo schierati in formazione a testuggine per combattere questa battaglia delle Termopili. Nemmeno la promessa della fellatio collettiva fatta da Madonna, un raro esempio di voto di scambio non denunciato da Saviano, è stata sufficiente per cambiare una sorte che era scritta nelle viscere del popolo americano. Si è detto che l’impressionante asimmetria fra il dispiegamento di celebrità in favore di Hillary Clinton e il risultato elettorale abbia definitivamente distrutto il meccanismo del testimonial. Per quanto sia corporativo e autoreferenziale, lo showbiz si regge sulla legittimazione popolare, gli eroi sono santificati nei cinema della periferia con i popcorn al burro e caramello, non nelle vuote sale d’essai dell’Upper West Side. Non sono i laureati di Harvard che pagano per vedere “Fast and Furious 7”. Se non si sintonizzano sulle frequenze delle masse, che celebrità sono? Eppure il testimonial serve ugualmente, tutti lo corteggiano anche se momentaneamente ha perso il suo tocco. Trump ha un bel da twittare in maiuscolo che lui sul palco dell’inaugurazione del 20 gennaio vuole “IL POPOLO” e non chissà quali performer da intervallo del Super Bowl, ma il suo team sta lavorando freneticamente per trovare qualcuno che accetti di dare una voce e un volto evocativo all’evento. Perché va bene sottolineare la distanza fra l’autentica cultura popolare e quella fasulla dell’élite, ma varare la presidenza con la faccia di Chachi è un suicidio. Finora hanno accettato di partecipare il corpo di ballo delle Radio City Rockettes, la cantante sedicenne Jackie Evancho, prodotto della fucina dei talent show, e Rebecca Ferguson, ma soltanto se le permetteranno di cantare “Strange Fruits”, canzone antirazzista degli anni Trenta che parla dei corpi dei neri impiccati agli alberi del sud. Il Mormon Tabernacle Choir ha accettato e poi dato forfait protestando una incompatibilità di valori che forse sarebbe stata superata soltanto dalla nomina di Mitt Romney a segretario di stato. La faccia da poster del trumpismo ancora una volta sfugge. 

Pescare nel mazzo della famiglia è la cosa più naturale, ma i figli maschi, Donald Jr. e Eric, hanno capelli troppo ingellati e fanno sorrisi troppo goffi per bucare lo schermo. Ivanka e il marito Jared funzionano a meraviglia, ma godono di rispetto bipartisan e trasmettono una sofisticazione che si porta alle feste newyorchesi, non fra gli operai del Wisconsin e della Pennsylvania che hanno eletto Donald. Manca il trash. Anche la moglie Melania, con la sua bellezza algida e slava, suscita al più desideri di contemplazione – per dir così – non empatia o identificazione. La giovane Tiffany pensa alla scuola di Legge di Harvard, Barron ha dieci anni e il suo assonnato cameo nella notte elettorale alle spalle del papà trionfante non è stato un grande inizio televisivo. Altri personaggi dello spettacolo hanno dato l’endorsement a Trump ma tra questi non si è imposta un’icona naturale. Chuck Norris sta bene in una festa country con Micke Huckabee, Kid Rock mendica da anni il ruolo di rockstar ufficiale del conservatorismo, Gary Busey era presentabile giusto ai tempi di “Point Break”, Mike Tyson nemmeno allora. Tila Tequila dice in giro di essere la reincarnazione di Hitler e fa saluti romani alle feste della alt-right, Aaron Carter dei Backstreet Boys ha dato il suo appoggio a Trump ma all’ultimo momento prima del voto ha cambiato idea, per “troppe ragioni”. Sylvester Stallone ha regalato a Trump un quadro con dedica in cui si complimenta per il grandioso knock-out a Hillary, ma Sly è un eroe americano totale, trascende tribù e partigianerie. Ci sarebbe Kanye West, che all’uscita da un’altra sessione in clinica dopo un esaurimento nervoso è andato dritto alla Trump Tower a parlare “della vita” con il prossimo commander in chief. Ma davvero l’icona del trumpismo può essere un rapper nero con un ego che farebbe ombra a un dittatore levantino? A tutto c’è un limite.

Occhi di ghiaccio, mascella quadrata e “pettorali dove uno squadrone di caccia potrebbe atterrare senza nessun problema”

La svolta in questa ricerca stilistica è arrivata la notte di Capodanno a Mar-a-Lago, la villa della Florida dove Trump ha dato una festa per ottocento invitati che hanno sborsato 424 dollari a testa per qualche causa benefica. Fra questi c’era anche la trasposizione immaginifica del presidente, che finalmente ha un nome e un cognome, ma più che altro un nome: Fabio. I millennial non hanno idea di chi sia – i millennial non hanno idea di molte cose – ma per chi è in giro da qualche anno Fabio non ha bisogno di cognome o di aggettivi, anzi chiamarlo Fabio Lanzoni potrebbe indurre a confonderlo per il ministro senza portafogli di un governo tecnico italiano. Fabio è soltanto Fabio, leggendario modello, scrittore, attore, protagonista di spot-tormentoni, agghindatore di migliaia di copertine di romance novel che hanno stuzzicato le fantasie di generazioni di casalinghe americane. C’è Fabio pirata, Fabio vichingo, Fabio comanche, Fabio canaglia, Fabio canaglia gentile e centinaia di altre scene di patinato erotismo in stile Harmony con un tocco di Conan il Barbaro dove il protagonista è perfettamente riconoscibile, con la chioma bionda che scende sulle spalle, gli occhi di ghiaccio, la mascella quadratissima e soprattutto i “pettorali dove uno squadrone di caccia potrebbe atterrare senza nessun problema”, come si legge nel memorabile incipit di un articolo di People del 1993.

Negli anni Ottanta e Novanta Fabio si è mosso con estrema disinvoltura fra uno shooting e una comparsata cinematografica (nell’“Esorcista III” è negli improbabili panni di un angioletto) finché non ha scoperto l’universo delle copertine dei libri. Dopo un paio di drink di troppo a una festa, l’editrice dei romanzi femminili che il modello impreziosiva con i suoi muscoli scolpiti si è lasciata sfuggire che quando mettevano Fabio in copertina le vendite avevano un sussulto. L’agente non ha perso l’occasione, e Fabio è passato da modello a cottimo ad autore di grido. Un libro poteva fruttare anche 150 mila dollari. C’è stato anche il Fabio cantante, autore di un disco intitolato “Fabio After Dark” in cui per qualche oscura ragione le canzoni erano tutte scritte e interpretate da altri. La consacrazione totale a idolo della cultura pop è arrivata con la pubblicità di “I can’t believe it’s not butter”, alternativa salutare al burro. Fabio è una statua presa a scalpellate dalla sua amante, simbolo di una relazione indurita dal “colesterolo che aveva tolto loro la passione”. Basta la sola presenza del prodotto nella stanza per spezzare l’incantesimo, il corpo tonico distrugge l’involucro di marmo, Fabio emerge in tutta la sua vichinga possanza e recita lo slogan: “I can’t believe is not butter”. Tripudio. A questo punto si capisce che l’aspirazione è niente meno che Hollywood. “Ho sempre saputo che fare il modello era soltanto un ruolo di transizione. Voglio esprimere me stesso, non mi piace stare fermo e apparire bello”, dice nel 1993. La carriera va avanti su un doppio binario, da una parte i prodotti televisivi ed editoriali di serie b e i video di fitness, dall’altra le grandi produzioni, che però gli offrono quasi esclusivamente comparse nel ruolo di se stesso. Quando non è impegnato a svolgere le attività ordinarie di Fabio, Fabio recita la parte di Fabio in una lunga serie di telefilm e produzioni hollywoodiane. Un destino che lo accomuna a Trump, grande maestro del cameo e della metanarrazione. In “Zoolander” accetta il premio di “attore barra modello” e ringrazia il pubblico per non averlo considerato “modello barra attore”, in “Hollywood Sex Wars” rassicura una ragazza nella jacuzzi che vuole attenzioni mentre lui se la fa con l’amica: “There’s plenty of Fabio to go around”, dice ammiccando. Fabio è anche imprenditore di vitamine e altri prodotti energetici, esperto di branding, produttore di aforismi e massime, indossatore di abiti discutibili e molto altro. Un blog dei suoi irriducibili fan descrive così i suoi hobby: “Fabio ama andare a cavallo senza maglietta, tirare di scherma senza maglietta, pescare senza maglietta, andare a vela sul suo yacht Poseidon’s Glory senza maglietta, prendersi cura degli anziani senza maglietta, aiutare i poveri senza maglietta, andare a messa senza maglietta, scrivere romanzi senza maglietta e prendere il sole nudo”.

A 57 anni il playboy incallito con una vena romantica e un amore giovanile bruciato e sempre rimpianto si è stancato delle notti brave e dei giorni spensierati. Vorrebbe una moglie, dei figli, contentandosi di tenere le adorate moto come svago dalla sua spericolata vita precedente. Ne possiede 325. A chi gli ha chiesto come mai così tante ha risposto che un anno ha 365 giorni, il che significa che per quaranta giorni all’anno Fabio ne guida una già usata. L’anno scorso ha comprato una proprietà di venti ettari nei boschi dello stato di Washington, all’interno ci sono anche due laghi sui quali non farà navigare barche a motore, ché quella è terra vergine. Ha una teoria orientaleggiante sul funzionamento dell’amore: “Un sacco di gente pensa: ‘Sarò felice quando troverò una persona speciale che mi renderà felice’ e invece no. Nella vita devi prima essere felice con te stesso. Quando sei felice con te stesso devi trovare un’altra persona che è felice con se stessa, così potete condividere le vostre felicità”. Nell’anima di Fabio avvampa ancora il sacro fuoco, o giù di lì. A trent’anni prometteva a se stesso e ai suoi adoratori di “continuare a sviluppare qualcosa interiormente, così quando avrò sessant’anni non sarò uno di quelli che fanno qualunque chirurgia plastica e si rendono ridicoli. Potrò dire che ho espresso me stesso, e ora sono un uomo felice”. Anche nell’èra delle infinite conquiste, Fabio non è mai passato come uno sciupafemmine truffaldino genere “grab by the pussy” o uno stallone italiano da commedia, anzi, grazie alle copertine femminili è quasi diventato un idolo femminista. Gloria Allred, inflessibile avvocato di infinite cause rosa, diceva che “ha un non so che che attrae le donne, è uno dei pochi uomini che non ho denunciato”.

Quando non è impegnato a svolgere le attività ordinarie, recita la parte di se stesso in una lunga serie di film per il cinema e la tv

Come quella di Trump, anche la vicenda di Fabio è segnata da una relazione conflittuale con il padre. Sauro Lanzoni era un ingegnere e facoltoso industriale milanese che lo avrebbe voluto come socio ed erede, ma a lui l’orizzonte della fabbrichetta stava stretto come una canottiera dopo una sessione di pesi. A 21 anni è approdato in America senza il sostegno del padre, ha buttato nel cestino il cognome e ha dimostrato a se stesso, alla famiglia e al mondo che nelle generose praterie del sogno americano c’è posto anche per Fabio. Con successo ha costruito una mitologia e un brand che non starebbe male inciso a lettere d’oro sulle facciate di palazzi sibaritici. Anche Fabio ha cinque lettere, come Trump. Niente ha potuto scalfire i pettorali e la reputazione di questo pezzo di cultura popolare che si muove in quel decisivo campo di battaglia in cui il glamour si scontra con il trash, e il trash vince. Nemmeno quella volta che ha fatto da uomo immagine per l’apertura di un parco divertimenti in Virginia e sulle montagne russe un’anatra gli è volata dritta sul naso, ed è arrivato con il volto coperto di sangue. Quello che per i mortali conta come figura di merda per Fabio è storytelling. C’è qualcosa di intimamente, sfacciatamente americano in questo ragazzaccio milanese che pare uscito dalla versione palestrata di Baywatch ma quando parla ha ancora intatto l’accento delle origini. Non la masticata cantilena siculo-americana da Soprano’s, ma un gentile vocalismo lombardo che all’orecchio americano suona esotico.

A 57 anni il playboy incallito con una vena romantica si è stancato delle notti brave. Vorrebbe una moglie e dei figli

Dopo trentacinque anni passati in America, qualche mese fa ha finalmente ottenuto la cittadinanza, giornata di giubilo che ha paragonato addirittura a un matrimonio: “Non lo chiamano il sogno italiano o il sogno inglese. In America c’è il sogno americano. E’ stato il primo posto a dare alla gente di qualunque estrazione e provenienza il proprio sogno. Puoi ottenere qualunque cosa”. Una foto lo ritrae con l’asta di una bandiera a stelle strisce fra le mani, e dietro l’entusiasmo del Fabio d’antologia, il vecchio leone pronto a ruggire, si intravvede la stessa malinconia di certi cantanti heavy metal che hanno alle spalle le loro stagioni migliori. C’è qualcosa di più trumpiano di questo nazionalismo venato di nostalgia? Sia chiaro: Fabio non è un esplicito sostenitore di Trump, anche se il doppio timbro al pranzo di Thanksgiving e alla notte di Capodanno difficilmente lo qualifica come antagonista del presidente eletto. Ha incrociato più volte la famiglia, questo è naturale, e circolano foto con lui che tiene in braccio Ivana (chi non è stato tenuto in braccio da Fabio), ma di Donald apprezza il fatto che “dice quello che pensa”. “Che ti piaccia oppure no, almeno sai da che parte sta”, ha detto, valorizzando la trasformazione della campagna in un potentissimo show: “Nessuno guarderà più i reality”. Al pranzo del ringraziamento era seduto nel tavolo a fianco a quello del presidente eletto. Raccontano che Trump, tormentato in quei giorni dalla scelta del segretario di stato, girasse per i tavoli chiedendo consiglio a ogni ospite. Non si sa se abbia chiesto anche a Fabio, né cosa lui abbia eventualmente risposto. Ma è bello immaginare che si sia offerto lui stesso per guidare la diplomazia, ché da quando ha il passaporto americano si definisce un “uomo del popolo che ama il popolo” e se fosse chiamato a un servizio pubblico “lavorerebbe per il popolo”. Un futuro in politica? “Non si sa mai”. Fabio for president.

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