Le lugubri fake news sull'attentato di Manchester che umiliano il dolore

La diffusione dei falsi dispersi sui social dopo l’attacco è il banale orrore che ridicolizza la tragedia

New York. Purtroppo esistono modi per rendere ancora più orribile una cieca strage di ragazzi e bambini a un concerto pop. Si possono mettere in atto comodamente da casa, senza necessariamente arruolarsi nello Stato islamico. Uno di questi è postare su Twitter la foto fasulla di un ragazzino disperso nei dintorni dell’arena e scrivere: “Mio figlio era alla Manchester Arena oggi. Non risponde al telefono! Per favore aiutatemi”. Un cinguettio come questo è stato ritwittato centinaia di volte, innescando catene di genitori addolorati che diffondevano e spargevano la voce, animati dai migliori sentimenti che di fronte allo squadernarsi del male sempre emergono. Ma la foto era un fake. Era il volto di un giovane youtuber che non c’entrava nulla con l’attentato, e quando qualcuno se n’è accorto l’interessato ha smentito con un video e ha chiesto l’eliminazione immediata del messaggio, ma una volta entrato in circolo era impossibile fermare il depistaggio.

 

 

Un’antica legge dei giornali dice che l’energia che occorre per far passare una smentita ai lettori è enormemente superiore a quella necessaria a far penetrare la notizia falsa. Lo sanno bene, ad esempio, gli indagati che, dopo essere passati attraverso il processo mediatico, vengono prosciolti perché il fatto non sussiste e la piena assoluzione viene nascosta in un trafiletto a pagina 37, in basso. Sui social l’energia per affermare una smentita è infinitamente superiore, e nei momenti confusi e febbrili che seguono un attentato come quello di Manchester, la lotta diventa impari. E infatti lo stesso volto dello youtuber che stava benissimo è ricomparso in altri tweet e altre conversazioni più articolate. Sono arrivati i mosaici con molte fotografie di teenager dati per dispersi a Manchester, alcuni con la scritta rossa “found”, altri ancora in attesa di accertamento, accompagnati da finti appelli di finti genitori che disperati cercavano i loro bambini. La foto del solito youtuber era fra quelli ritrovati, così che chi navigava fra l’enorme mole di informazioni che fluiva in quei momenti drammatici poteva essere confuso, pensando che magari quel ragazzo era davvero scampato all’attentato e aveva fatto un video per rassicurare tutti. Decine, centinaia, migliaia di messaggi hanno denunciato false scomparse, dicevano “mio fratello non risponde al telefono”, “il cellulare della mia ragazza non suona”, “eravamo al concerto insieme e non lo trovo più”. Anche la foto di un bambino con la sindrome di down è stata fatta circolare. Alcuni messaggi erano corredati da moti d’incoraggiamento: “Possiamo farcela!”, un perverso rovesciamento di veri hashtag di solidarietà dei tanti che hanno offerto subito il loro aiuto ai feriti, ai loro famigliari, a chi non poteva tornare a casa.

 

Are you okay sist? :(( I hope you are not traumatized #arianagrande #prayformanchester

Un post condiviso da Ve nyampah (@drfveve) in data:

 

Se si va, faticosamente, a ritroso nei messaggi, alla ricerca di chi li ha originati, si trovano spesso account con nickname strani, pochi follower, profili creati di recente e generalmente senza la foto di una persona come avatar. Sembrano profili fake della propaganda del Cremlino. Mano a mano che la notizia si diffonde, però, gli account cambiano, il “PLS RETWEET!1!1” si trasforma in chiare e articolate richieste d’aiuto. Succede quando la crudeltà dei fake arruola la buonafede delle persone reali. Fenomeni del genere si vedono ormai costantemente dopo tutte le tragedie, dopo ogni attentato o catastrofe naturale. Non si sa chi e perché dà origine a queste lugubri catene che umiliano il dolore, e sarebbe – paradossalmente – un sollievo pensare che chi lo fa intende solo monetizzare i clic, ma se un business model dello sciacallaggio dei troll esiste ancora non è chiaro. Forse è soltanto l’equivalente digitale del voltarsi a guardare l’incidente stradale nella corsia opposta.

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