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Il Milan e lo scudetto della pazienza

Giovanni Battistuzzi

I rossoneri hanno conquistato la Serie A all'ultima giornata, battendo il Sassuolo per 0-3. Una vittoria iniziata anni fa, nel giugno del 2019, con la gestione di Paolo Maldini e Frederic Massara

Il Milan ha vinto lo scudetto. Mica scontato a inizio campionato. E neppure a metà campionato. Per non dire dopo. Perché questa Serie A è stato un bel rebus, una corsa in surplace alla ricerca di non perdere più che alla ricerca della vittoria. Lo scudetto è arrivato all'ultima giornata, al termine di una partita contro il Sassuolo dominata e vinta per 0-3, grazie alla doppietta di Olivier Giroud e al gol di Franck Kessié (che ha reso del tutto superfluo il risultato di Inter-Sampdoria, finita 3-0 per dover di cronaca).

Una vittoria che è iniziata anni fa. E quasi senza saperlo. Una vittoria che è un percorso fatto di idee chiare e pazienza.

Aver le idee chiare, almeno nel calcio, non sempre basta. Serve anche la convinzione che queste idee siano effettivamente buone e, soprattutto, la pazienza di aspettare che si dimostrino, nei fatti, di esserlo.

Negli ultimi decenni nel calcio italiano progetti di rilancio, rivoluzioni, maquillage più o meno radicali, sono stati annunciati, promessi, iniziati. Poche volte però sono stati applicati fino in fondo. Alle prime difficoltà, ai primi risultati che non arrivano ci si chiede sempre se non si è fatto male i calcoli. La tentazione di sparigliare tutto, di mettere qualche taccone per cercare di riparare i buchi e gli strappi che i cambiamenti naturalmente creano. E allora i maquillage si moltiplicano, le rivoluzioni si inseguono una dopo l'altra sino a non capire più davvero se il progetto di rilancio sia effettivamente un progetto o soltanto una gran confusione, la messa in pratica quell'atteggiamento molto italiano dell'improvvisazione costante, che pure, a volte, buone cose ha prodotto. 

Per anni il Milan è rimasto preda dell'incapacità di credere nelle sue scelte. Anche perché queste non seguivano una logica univoca. S'era limitato a vivacchiare pensando che bastasse una storia di vittorie in sequenza, un'ambiente che veniva considerato pregno di spirito vincente, per trasformare onesti mestieranti del pallone in campioni. Se dal 2010 a oggi, i rossoneri hanno messo in bacheca solo uno scudetto e due supercoppe italiane, con ogni probabilità questa era una convinzione errata. Appellarsi allo spirito vincente e alla storia recente è il modo migliore per non capire che è il campo a determinare vincitori e vinti. E se le delusioni superano ampiamente le soddisfazioni qualcosa è evidente che non funzioni.

Da quando Paolo Maldini venne nominato direttore tecnico e Frederic Massara direttore sportivo, era il giugno del 2019, il Milan ha iniziato a inscatolare  e ordinare la confusione in scaffali di stoccaggio. La grandeur rossonera è stata messa da parte e la società ha iniziato a fare i conti davvero con il reale. Mai semplice accettare il principio di realtà, mai semplice dirsi, con franchezza, che serve non prendersi in giro, considerarsi un ex grande, che grande può tornare a patto di ragionare davvero sull'impossibilità di reggere il confronto con le altre e quindi trovare un'altra via, quella della squadra di media fascia che ha bisogno di mettere dei paletti e rispettarli senza sconti.

Una mutazione iniziata con un abbaglio, Marco Giampaolo, qualche passaggio a vuoto, ma tutto sommato lineare, soprattutto quando il lavoro di Stefano Pioli ha iniziato a dare i frutti e la rivoluzione che Ivan Gazidis avrebbe voluto, ossia affidare la squadra a Ralf Rangnick, è stata accantonata e si è data fiducia totale al duo Maldini-Massara. Perché basata su tre principi cardine: serve gente giovane e forte; serve permettere loro di maturare e crescere; non si fanno sconti a chi decide di anteporre alla gloria, soprattutto economica, personale al bene del gruppo. Tre regole che partono da una valutazione semplice: le risorse sono limitate e non bisogna sprecarle. Tre regole non negoziabili, con nessuno, nemmeno con un giocatore come Gigio Donnarumma, lasciato partire perché costava troppo. E perché Maldini e Massara sapevano di aver già individuato un sostituto più che all'altezza: Mike Maignan

Se il Milan ha vinto questa Serie A è, anche e soprattutto, perché queste tre regole che Maldini e Massara si sono imposti, sono stati rispettate.

L'evidenza di questo si rispecchia in due uomini. Leao e Sandro Tonali. Non gli unici, ma per distacco, i casi più eclatanti.

Il portoghese è arrivato nell'estate del 2019 con la convinzione che potesse diventare un signor giocatore. L'italiano l'hanno dopo con l'etichetta, per niente leggera di nuovo Pirlo.

Leao per due anni è stato un oggetto strano, un supellettile tanto bello quanto inutile. Poi, in questa stagione, da un certo punto in poi, ha iniziato a essere difficilmente marcabile. Sulla fascia ha iniziato a fare quello che voleva, e quello che voleva era parte del meglio che questa Serie A aveva da offrire. Tonali per tutto il primo anno ha alternato buone prestazioni a incertezze enormi, a tal punto che in molti, nella tifoseria, si sono chiesti se non fosse una illusione. E che la decisione di continuare a puntare su loro due non fosse un errore, quasi macroscopico, di valutazione. Non lo era. Serviva solo avere la pazienza di aspettare che le buone idee si rivelassero, diventassero realtà.

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