Benedetto Croce (foto LaPresse)

Croce e le fondamentali parole-spia

Matteo Marchesini

Nel gennaio di ottant’anni fa, il filosofo licenziò “La storia come pensiero e come azione”; e la Storia del 1938, è noto, aveva il volto di una minaccia che si avvera

Nel gennaio di ottant’anni fa, Benedetto Croce licenziò “La storia come pensiero e come azione”; e la Storia del 1938, è noto, aveva il volto di una minaccia che si avvera. Ambasciatore dell’Italia liberale sotto la dittatura, Croce allude con evidente preoccupazione al regime, al razzismo, ai rischi di catastrofe. Senza modificare in superficie la sua filosofia, sposta gli accenti cambiandone l’intonazione. Se fino al primo Dopoguerra insisteva machiavellicamente sul fatto che la storia ha il diritto di “schiacciare gl’individui”, ora un concreto Leviatano lo spinge a rivalutare l’etica.

 

Questo Croce oppone all’apologia della Violenza l’apologia della Ragione, fa della morale un sistema endocrino che limita l’indisciplina delle altre funzioni, e leva un inno alla religione della libertà. Ma anche davanti alla barbarie non abbandona la posa olimpica. Lo svolgersi delle vicende antiche e moderne gli appare come uno stratificarsi di onde in cui il contributo di ognuno si scioglie senza perdersi. Quella fiumana del progresso, che a Verga sembrava disumana, qui è descritta come un ininterrotto slancio vitale degli uomini che fanno surf lungo le sue correnti. E il surfista più accorto elabora un pensiero storico che nasce dalla pratica, che alla pratica ritorna, e che coincide con la filosofia. Come nell’estetica, anche nella storia si tratta di sgombrare il campo dagli errori, che però nel suo disegno trovano poi tutti posto e redenzione: tutti infatti hanno un ruolo, e l’irrazionalità è appena l’ombra del razionale.

 

Comunque, dice il filosofo nel ’38, se anche il destino riservasse al mondo una servitù di millenni, all’azione morale rimarrebbe ugualmente il compito di riaccendere la libertà. La sua fiducia è al di là di ogni ottimismo, e viene dalla soddisfazione di comprendere le cose via via che la storia procede in claritatem: non verso magnifiche sorti, ma appunto verso una crescita di consapevolezza che ne approfondisce e ne chiarisce i dolori come le gioie. La parola-spia che riassume questa fiducia è “operoso”: occorre lavorare fino all’ultimo, affrontando i problemi che l’esistenza pone senza ritenere nulla estraneo a sé. Forse non sarebbe inutile fare una breve storia della nostra cultura letteraria e civile attraverso le espressioni-tic dei suoi rappresentanti più emblematici.

 

Nel 2017 si è ricordato Giacomo Debenedetti, figlio eretico di Croce che non poteva più aspirare al seggio pontificale e alla salute onnivora del padre. Nel suo caso, anziché un termine andrebbe citato un cauteloso giro di frase. Mentre procede a tentoni nel buio di una terra che il suo maestro vedeva tutta illuminata, questo critico-narratore propone le sue idee mettendo le mani avanti, e addomesticando il pubblico con condizionali che smorza prima di pronunciarli: “Se non sapessimo… si direbbe quasi”. Nella generazione successiva, Pasolini e Sciascia si riavvicinano alla parte del direttore di coscienza. Ma la dialettica crociana è diventata in loro una militanza apocalittica e ossimorica. Più che le parole ricorrenti (la “felicità”, la “morte”) anche di Sciascia restano impressi i toni, i chiasmi ingessati, gli asindeti e gli incisi che mentre espandono la prosa la frenano in una cupa introversione. In Pasolini invece, con accenti opposti di complicità e disgusto, tornano ovunque epiteti come “pazzo” o “mostro” (sia per gli spiriti affini sia per il ripugnante uomo medio), ma anche voci come “conato” (su Mandel’štam, su don Milani, e di nuovo sui piccoli borghesi). Lo attrae ciò che è “assurdo”, “ingenuo”, “schizoide”. In un autore così poco incline al comico, questa brutalità psicologica trasmette un sentimento irresistibilmente ilare, diventa un gioco allegro di insulti veritieri. Ma forse più del “conato”, a denunciare la poetica pasoliniana del non-finito sono gli impazienti “ecc.” con cui conclude i suoi abbozzi argomentativi o descrittivi (un esempio tra i mille è in “Il Pci ai giovani!!”). Ultimo prelievo da Manganelli, un coetaneo di P.P.P. che ha esercitato la sua egemonia più tardi e fino a oggi.

 

Nel “Discorso dell’ombra e dello stemma”, appena ristampato, si trova subito la sua parola-leitmotiv, “losco”, col consueto contorno di “demenza”, “follia”, “macchinazione”. Manganelli sembra il rovescio di Croce: nel suo universo nero la razionalità è appena l’ombra derisoria dell’irrazionale. Eppure. Forse non è un caso che Adelphi li ripubblichi insieme. Anche nell’autore del “Discorso” arte e storia, pensiero e azione si rifondono nel gran mare tautologico dell’essere, non Golfo di Napoli ma vicino Averno; e anche lui domina il mondo con imperturbabile agio classificatorio. Non c’è niente di davvero losco nei suoi libri, dove le pietanze più orrorifiche ci vengono servite su una tavola uniformemente sontuosa, in un Palazzo Filomarino truccato da Casa Addams. L’inganno e il crimine sono fuori, nella realtà esorcizzata dai suoi levigati inferni cartacei, che offrono un rifugio di lusso a chi cerca un risarcimento accademico della vita. Io preferisco i figli feriti. Preferisco quelli che non hanno potuto abitare né il regno dove tutto è storia spirituale né il regno dove tutto è spiritosa menzogna.

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