Roberta Tatafiore
Il suicidio filosofico
L'ha deciso il primo gennaio. L'ha programmato in ogni particolare, l'ha fatto. Partendo dalla fine, Roberta Tatafiore si è presentata con la propria morte. Eccomi, io sono questa: ho deciso di morire, ho deciso di farlo per mano mia. Voi avete pensato che fossi sparita perché dovevo girare un documentario in Svizzera, e invece stavo facendo progetti. Questo progetto.
Leggi Tatafiore e la linea della fermezza (con qualche dubbio residuo)
L'ha deciso il primo gennaio. L'ha programmato in ogni particolare, l'ha fatto. Partendo dalla fine, Roberta Tatafiore si è presentata con la propria morte. Eccomi, io sono questa: ho deciso di morire, ho deciso di farlo per mano mia. Voi avete pensato che fossi sparita perché dovevo girare un documentario in Svizzera, e invece stavo facendo progetti. Questo progetto. Voi ancora non sapete bene perché l'ho fatto, anche se conoscendomi potete immaginarlo. Ma tra pochi giorni saprete. Ho scritto quattro lettere, a quattro amici. Queste lettere hanno viaggiato, inesorabili, mentre io, in una camera d'albergo romana, cominciavo a darmi la morte, e sono state lette quando già la mia morte cominciava a diventare fatto compiuto. Chi ha le lettere sa che gli arriverà anche un mio memoriale, un libro, un diario che comincia proprio il primo gennaio e spiega le ragioni di questa mia ultima azione. Gli altri sapranno soltanto dopo. Dopo che il memoriale sarà stato letto e discusso dai quattro prescelti, come in un collettivo, l'ultimo collettivo a cui io, pur in morte, partecipo. Saprete dopo che i quattro avranno deciso come rendere pubbliche le parole che ho lasciato. Non è uno scherzo macabro, non è un giallo perfetto. Potete crederci, perché io non ci sono già più mentre vi chiedete: “Perché l'ha fatto?”.
Un memoriale, veramente, Roberta l'aveva già scritto. Tanto tempo, fa, all'inizio degli anni Novanta. Quando era già giornalista, saggista, ex fondatrice del Centro Virginia Woolf, ex e post femminista libertaria che non sopportava il bigottismo dell'esser femminista dura e pura. Erano poche pagine su Memoria, rivista di storia delle donne. Pochi ricordi di bambina. Roberta che si racconta, e però non era soltanto un insieme di aneddoti. Era un racconto che metteva a nudo una messa in scena. Così la chiamava Roberta: “La messa in scena delle mie angosce”. Perché da piccola Roberta era paurosa. Aveva paura di tutto: “Di saltare un muretto. Di sentirmi male in macchina. Dei fantasmi. Degli scherzi. Dell'acqua alta. Delle malattie. Della bicicletta. Di stare sola. E soprattutto restare sola”. E allora cercava di anticiparla, la paura. Appena i genitori uscivano Roberta si metteva a piangere disperata immaginando che non tornassero più. Era un giocare al rialzo con se stessa: vediamo cosa mi succede se mi dispero così. E siccome la messa in scena “innestava una spirale sadomasochista” in cui la piccola Roberta si sentiva abbandonata e poi circondata da nemici che minimizzavano, poi arrivava il panico. Ma era un panico scatenato a comando. Roberta si calmava vicino a sua madre, “il grande amore dei miei anni infantili”, scriveva su Memoria. “Ma era un amore che mi ha tenuta lontana dal mondo reale. Non sapevo e non so godere niente che non venga dalla testa e dalla fantasia. Il contatto con il mondo esterno, con la sua fisicità, ancora mi fa paura”. Il pediatra le diceva: “Robertina è troppo cerebrale”.
“Cerebrale”, dicono oggi gli osservatori della morte di Roberta, per definire lei e il suo suicidio. E in qualche modo confessano una sorta di irresistibile ammirazione per quell'atto di estrema cerebralità – non senza dolore e imbarazzo e rammarico per la morte di una donna di sessantacinque anni sana, bella, forte, allegra, solare e sfrontata che non aveva mai accettato di sottostare al compromesso. Compromesso, non contrattazione, ché la contrattazione era quello che Roberta consigliava alle amiche nei rapporti con gli uomini – “ragazze, dovete contrattare, non si cede per amore” – e lo diceva lei che aveva sposato un pittore durante gli anni scapestrati nella Swinging London, e poi l'aveva lasciato per non sentirsi confinata in un legame che poteva farsi legaccio e cedimento del sé a un altare ipotetico dell'amore romantico. E nel mezzo di un mondo anarco-situazionista Roberta si è divertita a sconvolgere le certezze borghesi e a teorizzare un modo felice di amare guidata dalla testa.
Perché l'ha fatto?, si chiedono gli amici e gli osservatori, davanti alla fine di Roberta Tatafiore. E ricordano ossessivamente i particolari della sua vita, cercando nel passato (e nelle sue parole passate) un indizio, un inizio, un qualsiasi segno premonitore di quella morte che non sanno come definire, tanto resta sospesa tra l'atto filosofico, il manifesto politico e l'estremo sforzo di definizione di sé. Una morte che non è eutanasia – Roberta non era malata. E' vero che Roberta aveva scritto molti articoli sulla vicenda di Eluana Englaro, sul Secolo e sul sito Donnealtri, dove ragionava “a corpo freddo (di Eluana) e a mente raggelata (la mia)”. “Mi interrogo sulle ragioni dell'esito paradossale del cosiddetto caso Englaro”, scriveva Roberta,“il padre di Eluana è riuscito sì a liberare sua figlia da una vita-nonvita… ma a un prezzo molto alto: avremo la legge peggiore che esiste al mondo sulle volontà di fine vita…”. E ragionava, Roberta, sul fatto che “nelle società in cui viviamo, non ci sono che due modi di morire di propria volontà: ricorrere al suicidio (che non a caso in tedesco si chiama Freitod, libera morte) oppure affidarsi alla legge che stabilisce i confini entro i quali uno, alcuni o alcuni altri, possono accelerare la nostra dipartita… Ma poiché il morire è cosa spiritualmente ed esistenzialmente pregnante, nonché materialmente complicata, se non possiamo o non vogliamo morire di nostra mano, se non possiamo o non vogliamo aspettare che il nostro destino si compia in base alla legge naturale (che di naturale ha ormai ben poco visto che le nuove tecnologie della cura possono prolungare la vita ad libitum), altra scelta non abbiamo che sperare, sperare che pietà umana e perizia medica ci accompagnino nel trapasso in un luogo necessariamente pubblico… perché regolato da norme pubbliche. Nella nostra solitudine di morenti saremo comunque creature dolenti e bisognose, aggrappate alla vita e timorose della morte, e – coscienti o non coscienti – delegheremo allo stato la nostra esecuzione. Non è una prospettiva esaltante…”.
Chi era davvero Roberta?, si chiedono oggi amici e nemici per spiegare una morte che non pare sacrificio né disperazione. E dicono che Roberta Tatafiore era una femminista con una curiosità indomabile che ben si sposava con l'ossessione di libertà. Una giornalista e saggista che da “Noi donne” è arrivata al Secolo d'Italia senza farsi mai inscatolare nella semplificazione destra-sinistra. Una ragazza abituata agli schiaffi feroci della vita – suo padre fu ucciso quando lei aveva solo diciassette anni. Una donna senza pregiudizi postcomunisti – per lei il mercato era libertà, in qualunque forma il mercato fosse declinato, anche sotto forma di prostituzione. Roberta non sopportava il giustizialismo, dicono, ed è per questo che si è allontanata dai vecchi amici gauchisti che durante Tangentopoli urlavano “alla gogna”. E' stata filoproletaria ma anche no, radicale ma anche no, berlusconiana ma anche no, e aveva provato tutto e pensato tutto senza limiti e senza complessi, e per questo andava d'accordo anche con chi, come le ragazze fasciste, non era mai potuto entrare nella Casa delle donne a via del Governo Vecchio. “Ho trovato dei sorprendenti punti di contatto con la sua visione libertaria della vita”, dice Flavia Perina, direttore di Roberta al Secolo d'Italia. La collaborazione nacque quando il Secolo, dice Perina, “cominciò a declinare l'idea di una destra dei diritti”. Roberta Tatafiore, in duetto con Isabella Rauti, teneva una rubrica chiamata “Thelma e Louise”. Un titolo che oggi suona profetico per Roberta, se si pensa al finale del film – un volo di libertà oltre il dirupo. L'ultima rubrica, datata il 24 dicembre, è stata scritta prima che Roberta dicesse a Flavia “parto per tre mesi, ricomincio dopo il trentuno marzo”, ma erano giorni (fino all'altro ieri, quando la notizia del suicidio ha lasciato tutti basiti) che al Secolo la cercavano per sapere quando riprendere la collaborazione.
Ed era strana, quell'assenza, perché Roberta, come racconta il suo direttore storico a Noidonne, Franca Fossati, non tardava mai nella consegna dei pezzi. In quella rubrica Roberta, parlando dei Natali della sua vita, aveva lasciato un piccolo saluto criptato, un bilancio nascosto. C'era stato un Natale di fine-adolescenza, con il padre ancora in vita, scriveva Roberta, un padre preoccupato e in ristrettezze dopo l'epurazione da parte del Comitato di Liberazione nazionale (aveva lavorato in una fabbrica sotto il fascismo, non aveva mai preso la tessera, ma non era mai più tornato al suo posto). C'era stato un Natale femminista, “uno dei più divertenti”, alla vigilia della prima adunata nazionale delle lesbiche “che rivendicavano una posizione specifica nel femminismo”. C'era stato un Natale di volontariato alla Comunità di Sant'Egidio, un'insolita buona azione per Roberta, fatta su consiglio di un amico: “Bella, bellissima la messa di mezzanotte con presepe vivente: gli angioletti che si addormentavano, l'asinello che s'indisponeva, le pecore che scacazzavano, la Madonna col manto blu che dopo la cerimonia, sul sagrato, si fumava una sigaretta…”. E alla fine Roberta consigliava ai lettori di rileggere “‘La favola di Natale' di Giovannino Guareschi”. Una coppia – racconta Roberta – cena ma non sparecchia. Perché di notte i morti verranno a mangiare il pane. Lei si assopiva, lui no, e nel dormiveglia vedeva passare le anime di nonno, zia e cugina che si sedevano a tavola e si passavano il pane, lasciandolo intatto. “Il Natale è la festa anche dei nostri morti”, scriveva Roberta. E il lettore oggi non può che immaginarsela come un personaggio di quella favola: un folletto sorridente e un po' beffardo che nottetempo si intrufola nelle case degli amici dormienti, e assaggia – senza portarli via – i biscotti della colazione.
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