Quando la sinistra non ha complessi

Marianna Rizzini

Filippo Penati, candidato del centrosinistra alla provincia di Milano, uomo del ballottaggio contro Guido Podestà e presidente uscente della provincia stessa, si definisce prima di tutto attraverso il grado di inorridimento cui costringe i suoi detrattori democratici e progressisti. Uomo del Pd a cui piacerebbe un Pd del nord, Penati non dice mai “solidarietà, solidarietà, solidarietà”. Motivo per cui s'è beccato l'epiteto di criptoleghista.

    Filippo Penati, candidato del centrosinistra alla provincia di Milano, uomo del ballottaggio contro Guido Podestà e presidente uscente della provincia stessa, si definisce prima di tutto attraverso il grado di inorridimento cui costringe i suoi detrattori democratici e progressisti. “Ma come si fa a dire, come ha detto Penati, che è colpa della Moratti se Milano è ‘una città africana', dopo che Berlusconi se n'è uscito con la frase ‘Milano città africana'? E' un'affermazione che tradisce un alto livello di razzismo inconsapevole”, dice Ritanna Armeni lodando invece il cardinale Dionigi Tettamanzi “che quantomeno ha fatto notare quanto odio si semini parlando così”.

    Uomo del Pd a cui piacerebbe un Pd del nord, Penati non dice mai “solidarietà, solidarietà, solidarietà”. Motivo per cui s'è beccato l'epiteto di criptoleghista non soltanto da Ritanna Armeni – che volentieri rincara la dose: “Penati insegue la Lega sul suo terreno e la supera” – ma anche da una parte dell'intellighenzia meneghina, orripilata per le idee tremontiane di Penati sulle tasse (anni fa il presidente uscente della provincia di Milano ha letto il libro tremontiano “Le cento tasse degli italiani” e, dice oggi, ne ha tratto un principio ispiratore: “Non è detto che una tassa pagata al nord debba passare per Roma per diventare spesa pubblica al nord”).

    L'intellighenzia meneghina inorridisce altresì per il Penati che sfida Podestà sull'immigrazione: mentri tu eri al Parlamento europeo, disse un giorno Penati a Podestà, a favorire la libera circolazione dei rom romeni per non scontentare le imprese italiane che investivano in Romania, io stavo qui a dire a Romano Prodi di non favorirla. Non solo. Penati pensa che “ostentare solidarietà generica sia il modo migliore per fare un regalo alla destra che, non avendo nessun competitore sul piano della sicurezza, e chiedendo però il voto sulla sicurezza, non ha mai bisogno di mantenere le promesse”. Mentre si dondola su una sedia-poltrona piena di stucchi, più grande e più alta di lui (che già è alto), Penati, ex professore, non resiste alla metafora pedagogica: “La destra è come un bambino viziato, e l'ha viziato la sinistra”. Dopodiché, dice, “la sinistra da salotto, quella che non va al mercato, si vizia da sola con dibattiti surreali e autoassolutori. C'è chi ha detto che siamo andati bene perché Debora Serracchiani ha preso più voti di Berlusconi. Debora Serracchiani!”. Non è la ragazza in sé, neo eurodeputata, a preoccupare Penati, ma “il fatto che tutti abbiano la testa al congresso mentre qui si deve lavurà e lavurà per vincere i ballottaggi”.

    Il suo ballottaggio, in effetti, si presenta insidioso: Podestà è uscito dal primo turno con il 48,8 per cento, Penati con il 38,8. Sono dieci punti secchi, discussi dal presidente uscente al ristorante all'angolo di Palazzo Isimbardi, alla presenza dell'intero staff di comunicatori. Al ritorno dal pranzo Penati tradisce una certa sonnolenza ma neppure l'ombra della preoccupazione. Appare anzi allegro e baldanzoso mentre saluta amici, portieri, cronisti e passanti. Che cosa voterà l'Udc non si sa (anche se il sindaco Letizia Moratti invita i casiniani a votare Podestà e attacca Penati con l'accusa che Penati fa alla destra: “Assente sulla sicurezza”). Né si sa se gli elettori andranno al mare o alle urne, ma Penati dice di aver “già fatto un miracolo a Milano: nel 2004 mi davano per spacciato e invece eccomi qui”. Per non sbagliare, si sottopone a qualsiasi fatica pur di essere ubiquo. E' così che si ritrova, in una sera di giugno, al saggio di fine anno di un corso professionale di moda, alla periferia di Milano. Il palazzone pullula di ospiti muniti di macchine digitali.

    L'inquietudine è palpabile: il buffet non è ancora aperto e la sfilata non è ancora iniziata. Ci sono mamme orgogliose (più in tiro delle modelle), sartine mascherate da cappellaio matto, fratelli maggiori tatuati che ondeggiano sulle imponenti scarpe di gomma, fidanzati con il casco ancora in testa, bambini saltellanti in fuga dai trampolieri-donna che sventolano le code lunghissime delle giacche da damerino. Penati si guarda intorno, sorride, sale sulla passerella, si ferma e resta con le punte dei piedi leggermente all'infuori, come in attesa di istruzioni. Le istruzioni arrivano da una presentatrice in abito lungo, lentissima nell'eloquio. “Ecco la sorpresa di stasera, Filippo Penaaaaaati”, dice la signora con l'aria di annunciare l'ultimo numero al circo di Natale. Penati pare preso da timidezza. Poi augura “buona festa a tutti”, loda i “risultati della formazione moda”, ricorda il nesso tra “Expo e  opportunità per i giovani” e infine si siede, esausto, cedendo il suo spazio in passerella a una processione di tubini neri su musica tecno.

    In barba a una certa milanesità dai toni sommessi, Filippo Penati, che di tutt'altra milanesità è pregno, non disdegna di essere considerato fuori linea rispetto alla sinistra equa e solidale. Si presenta con un “uè”, detto a voce alta e con l'inflessione strascinata da ragazzotto dell'hinterland – di quelli che usano il “uè, reeega” al posto dell'“ehi ragazzi”. Dopo il “uè” arrivano poche parole sparate senza ombra di ripensamento: “Godo se penso a quanto sono orgoglioso di essere stato comunista e a quanto sono orgoglioso di non esserlo più”, dice citando il direttore di un piccolo giornale d'opinione. E se uno gli chiede: “Scusi presidente, ma dice così proprio ora che deve ramazzare i voti dell'estrema sinistra con cui oltretutto ha rotto in giunta?”, il presidente si dondola all'indietro sul trono che ha per sedia e dice di confidare “sulla tavola comune di valori con cui chiederò alle sinistre il voto per il meno peggio – dal loro punto di vista, ovviamente”. I valori in comune Penati non li elenca. Ripensandoci dice: “Il 25 aprile”.

    A due mesi dal 25 aprile in cui Silvio Berlusconi, proprio a Milano, ha mostrato di avere in mente la metamorfosi della Liberazione in “festa della libertà”, il valore in comune individuato da Penati fa pensare che Penati, oltre a essere “partigiano nell'animo” e nipote di un nonno mai tornato da Mauthausen (“a Sesto San Giovanni c'è la sua lapide, si chiamava come me, Filippo”), sia anche “il più berlusconiano dei candidati al ballottaggio”, come dice, ridendo, un cronista politico di un quotidiano del nord. Il quale conferma così l'immagine del Penati “convertito”, una sorta di Gianfranco Fini a parti rovesciate: uno di sinistra che dice cose che neppure la destra dice. Di certo Penati mostra un certo berlusconismo nella promozione del sé candidato: “Stasera vado alla Camera del Lavoro a parlare con gli aspiranti sindaci e consiglieri. Darò la carica e distribuirò il kit dell'attivista”. Il kit consiste in un piccolo pamphlet dal titolo “Le bugie di Podestà”, in cui si replica punto per punto alle accuse del rivale in tema di infrastrutture, alleanze, stanziamenti per ventimila famiglie in difficoltà e persino “amianto nelle scuole”. In particolare si risponde alla domanda implicita: “Ma Penati fa parte o no del partito autostradale?”.

    Per chi non mastica infrastrutture milanesi la questione è complicata. I nemici di Penati dicono che “la provincia conta poco tranne che sulle autostrade”. Podestà dice che Penati ha “contrastato l'avvio” della tangenziale esterna e della Pedemontana. Penati dice invece che la Provincia “ha appaltato e realizzato lavori stradali per una media di venti milioni di euro l'anno”. Il dibattito in giunta fu feroce. Ci fu chi accusò Penati di incauto acquisto delle quote di maggioranza della società Serravalle. Il consigliere di centrodestra Max Bruschi fece un intervento sui “nefasti di Filippo Penati” e il Nuovo Psi stampò un libello dal titolo “Falce e casello”. Il pamphlet di Penati ribatte “che il patrimonio netto di Serravalle dal 2003 è raddoppiato”, che la si vuole “quotare in borsa entro il 2010” e che si intende “utilizzare il venti per cento del ricavato” per un progetto di housing sociale.

    Mentre Penati illustra la strategia per il secondo turno, il suo portavoce – gentile ma inflessibile – striglia al telefono un oscuro redattore di una trasmissione televisiva nazionale. A giudicare dalle parole del portavoce, il redattore non riesce a dare la conferma che taglia la testa al toro: “Insomma, c'è o no Podestà in studio? Noi veniamo anche a Roma, ma dovete dircelo ora, e con certezza”. “Se non c'è Podestà non si fa il duello tv, e allora tanto vale prendere un altro impegno sul territorio”, traduce Penati interpretando l'espressione rabbuiata del portavoce, il quale nel frattempo sta facendo dei gran segnali, tipo alfabeto muto, in direzione del presidente. Si intuisce che il succo è: “Filippo sbrigati a decidere se vuoi andare o no”.

    Tranquillo, Filippo si dondola di nuovo in avanti, fa cenno di sì, fissa la testa neoclassica di marmo scuro che ha sulla scrivania e dice di aver dato alle stampe due nuovi manifesti. Uno per ringraziare gli elettori del primo turno. Il secondo prevede una foto ad altezza poco meno che naturale, 180 centimetri. E' una gigantografia, ma stavolta non in stile locandina del film “I soliti sospetti”, a differenza di quella del 2004, dove un Penati con la mano in tasca avanzava sicuro su sfondo metropolitano. La gigantografia punta su un volto gioviale da proprietario di salumeria milanese d'élite, quello che, in camice bianco, dice: “Buongiorno signora, oggi abbiamo delle meravigliose aringhe affumicate del Baltico, le ho tenute per lei”. La versione primo piano mostra invece una faccia serena da insegnante di educazione tecnica, cosa che Penati è stato davvero negli anni in cui l'impegno politico non aveva ancora dato frutti visibili (poi divenne assessore a Sesto con Fiorenza Bassoli, poi sindaco di Sesto, poi segretario provinciale milanese del partito e infine presidente della provincia).

    Si sa che il professore di tecnica è quello che fa finta di niente se c'è casino in classe e pazientemente insegna a squadrare il foglio allo studente che preferisce fare i compiti di matematica per l'ora successiva. Altrettanto pazientemente Penati spiega lo slogan “scegli la persona” e fa confronti lusinghieri per se stesso: “Nel 2004 i vari partiti che mi sostenevano avevano voluto il loro simbolo sotto la mia foto, ma stavolta si sono identificati e hanno detto: fate voi”. Appare talmente consapevole di avere un merito nella scomparsa dei simboli sotto la foto, Penati, da combaciare con la definizione che di lui dà un anonimo conoscente degli esordi – e cioè degli anni in cui il futuro sindaco di Sesto era impiegato nell'associazione dei circoli cooperativi, una sorta di bocciofila con venature sociocomuniste da Casa del popolo: “Penati non era umile, ma conosceva le virtù dell'umiltà. Era un ragazzo sveglio, riformista come si poteva essere riformisti negli anni Settanta”. All'epoca capitava che Penati, cresciuto in una casa di ringhiera detta “Il Cairo” per via del sovraffollamento, cucinasse per tutti nel bar sul retro. Invece di guardare l'ora si regolava “con il fischio del turno” delle fabbriche, come raccontò commosso in un'intervista al Magazine.

    Non per umiltà ma per amor di territorio Filippo Penati esclude per sé un effetto Renato Soru – che consiste nel vedersi candidato a una discesa in campo a livello nazionale nel Pd non appena si emerge sul piano locale. Qualcuno però l'ha detto: ma perché Penati non si candida al congresso? Penati, però, che oltretutto è amico del candidato Pier Luigi Bersani, compagno di bevute nelle birrerie dell'hinterland dove il presidente uscente si reca la domenica anche con il figlio, ridondola all'indietro e dice “resto qui”. Mentre parla l'interlocutore non riesce a non concentrarsi sul suo accento, analizzato con puntigliosità scientifica dal candidato consigliere Philippe Daverio, penatiano nonostante il passato da assessore alla Cultura nella giunta leghista di Marco Formentini: “Penati è cresciuto a Sesto e ha un bell'accento da fabbrica, alla Massimo Moratti, non un accento milanese da upper-class, alla Piero Bassetti. L'accento da fabbrica è il segreto del suo pensiero, ciò che fa di lui un lavoratore ilare alla Gino Bramieri, un prodotto del vecchio Pci cresciuto però nella pratica nei consigli municipali e non sulla seggiola che dal partito porta in Parlamento”.

    Il reclutamento di Daverio è nato una sera alla Scala: Daverio recitava e nessun notabile andò a vederlo. Penati invece fece lo sforzo. Poco dopo divennero colleghi di lista, anche se Daverio continua a rimarcare che il suo “rapporto col Pd è di reciproca attrazione e diffidenza: loro non tollerano il mio libertarismo e io non tollero la loro eco d'oratorio”. Guardando la camicia bianca di Penati, si capisce che Daverio è stato profetico: “Non possiede neppure una camicia a righe, men che meno botton-down”, aveva detto l'aspirante consigliere. E dev'essere un feticcio di guerra, la camicia bianca, tanto che Penati se la aggiusta, tirando in fuori il lembo del colletto, ogni volta che qualcuno nomina la parola “ballottaggio”.

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.