L'incubo non solo giapponese di un medioevo prossimo venturo

Nicoletta Tiliacos

Il sogno di una fonte inesauribile di energia, e dell'illimitata capacità di padroneggiarne l'uso, è forse quanto di più vicino all'immaginario alchemico sia stato prodotto dal mondo contemporaneo. Non più l'oro, ma l'acquisizione per via tecnologica di una sorgente perenne di potenza, è diventato l'obiettivo di una Grande Opera che in questi giorni sta mostrando la sua faccia nera nell'incendio nucleare di Fukushima.

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    Il sogno di una fonte inesauribile di energia, e dell'illimitata capacità di padroneggiarne l'uso, è forse quanto di più vicino all'immaginario alchemico sia stato prodotto dal mondo contemporaneo. Non più l'oro, ma l'acquisizione per via tecnologica di una sorgente perenne di potenza, è diventato l'obiettivo di una Grande Opera che in questi giorni sta mostrando la sua faccia nera nell'incendio nucleare di Fukushima. Il Giappone appare come la cavia di un esperimento maligno, un luogo in cui, per metà della popolazione, diventano incerte le attività più banali. Incerto il cibo, incerte l'acqua, la luce, la casa.

    Naufraghi postmoderni in plaghe minacciate da un nemico invisibile, i giapponesi sembrano diventati protagonisti involontari di quei film che fanno sospirare di sollievo – “meno male che non è vero” – all'uscita del cinema. Delle catastrofi solo immaginate si può perfino sorridere. L'episodio musicalmente accompagnato dal “Bolero” di Ravel di un famoso film di animazione di Bruno Bozzetto, “Allegro non troppo” (1976), cominciava con l'immagine dell'ultima astronave che abbandona una Terra completamente distrutta e contaminata. Unica “vita” residua, qualche microrganismo gorgogliante nel fondo di una bottiglia di cocacola. Da lì riprendono forma, passo dopo passo, al ritmo incalzante del “Bolero”, le forme animali più stravaganti e, infine, uno scimmione già umanizzato e arrogantissimo, incapace di prendere lezioni di umiltà dalla natura e pronto – già si capisce – a provocare nuove apocalissi.

    Nel disastro nucleare, infatti, c'è un di più, rispetto all'ineluttabile naturale, al maremoto, al terrremoto, al tornado. Quel di più è dato dal fatto che il mostro è evocato, costruito, progettato dagli stessi uomini che dimostrano di non saperlo o poterlo governare, incapaci perfino di prevedere per quanto tempo farà danni, e di che entità. L'antropologo Franco La Cecla, studioso dei fenomeni della globalizzazione, dice al Foglio che è troppo presto per capire come saranno affrontate, da parte di un mondo ricco ed evoluto come quello giapponese, le conseguenze di un minacciato medioevo di ritorno: “Quello in corso in Giappone è un disastro inaudito, che nasce dall'aver accettato, nel paese che già aveva subito Hiroshima, un sistema energetico basato sulle centrali nucleari, all'interno di un patto di dipendenza dagli Stati Uniti rispetto all'uranio”.

    La Cecla spiega che “le catastrofi sono diventate un tema chic – basti pensare al filosofo Paul Virilio e alle sue teorie sul Terzo millennio nato sotto il segno della catastrofe – e per qualcuno anche un business, mai l'oggetto di riflessione da parte di chi ha la responsabilità della sicurezza dei paesi. Come si fa a proteggere le società postindustriali? Nessuno lo sa. Non sappiamo nemmeno quanta gente sia veramente morta a Chernobyl”. Del Giappone, frequentato nel corso di numerosi soggiorni, La Cecla sottolinea “non tanto la capacità di lavoro dei suoi abitanti, in parte una leggenda che piace molto a noi occidentali. In realtà i giapponesi fanno vita comunitaria, sono abituati alla folla e di conseguenza alla pazienza”. L'antropologo, del quale sta per uscire una nuova edizione di “Mente locale” (Eleuthera), pensa anche che “la lezione della catastrofe di Fukushima, della quale i giapponesi ora pagano a prezzi altissimi, parla dell'immensa fragilità di tutte le nostre società. Se di medioevo di ritorno si vuol parlare, allora riguarda tutti. Non siamo di fronte a una sindrome di impotenza, ma all'impotenza reale dell'apprendista stregone. Con tutta la tecnologia di cui dispone, il Giappone si trova esposto in queste ore a qualcosa di infinitamente peggiore della peste”.

    Carlo Formenti, giornalista e studioso dell'impatto delle nuove tecnologie (sta per uscire il suo libro “Felici e sfruttati”, edito da Egea e dedicato alla new economy) dice che “negli ultimi decenni, non solo in Giappone ma ovunque, con modalità differenti a seconda delle culture locali, si è ridotta la capacità di reazione di fronte a situazioni che sarebbero state un tempo oggetto di conflitti. La tecnica ha assunto caratteristiche di forza soprannaturale, ci siamo assuefatti alla sua crescente ‘dismisura', alla sua moltiplicazione geometrica, alla sua proliferazione nella vita quotidiana, al meccanismo inerziale che fa considerare subito fattibile tutto ciò che è possibile. Questa accelerazione è fuori controllo ed è scontato che influisca su ogni momento della nostra vita, non possiamo più farne a meno”. La reazione di chi è costretto a far fronte alla catastrofe “non sarà troppo dissimile da quello che accade nelle grandi guerre. C'è una forma necessaria di regressione verso stili di vita più sobri, si ripensa la gerachia delle necessità, si mettono al centro le esigenze elementari. E c'è un rallentamento temporale, perché il tempo accelerato della tecnica collassa e si torna a ritmi premoderni. In un altro tipo di cataclisma, rispetto a quella che vive il Giappone in questi giorni, vale a dire il tracollo economico avvenuto in Argentina alla fine degli anni Novanta, fu rimessa in piedi, in nome della sopravvivenza, un'economia del baratto: la più arcaica possibile”.

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