Da Chernobyl a Fukushima, la nube è radioattiva e anche disinformativa

Nicoletta Tiliacos

“Niente di commestibile potrà essere portato dentro la Zona e niente riportato fuori; niente potrà essere raccolto nella Zona; tutto quel che vi cadrà per terra dovrà essere lasciato là, nella Zona”. Il cartello minatorio campeggia all'ingresso di ciò che rimane di Chernobyl. Lo racconta in un libro che uscirà il 7 aprile (si intitola “Chernobyl”, lo pubblica Sellerio) Francesco M. Cataluccio, consulente di importanti case editrici, traduttore e studioso di letteratura polacca.

    “Niente di commestibile potrà essere portato dentro la Zona e niente riportato fuori; niente potrà essere raccolto nella Zona; tutto quel che vi cadrà per terra dovrà essere lasciato là, nella Zona”. Il cartello minatorio campeggia all'ingresso di ciò che rimane di Chernobyl. Lo racconta in un libro che uscirà il 7 aprile (si intitola “Chernobyl”, lo pubblica Sellerio) Francesco M. Cataluccio, consulente di importanti case editrici, traduttore e studioso di letteratura polacca.

    A un quarto di secolo dall'incidente nucleare che trasformò il nome della piccola città ucraina in sinonimo di catastrofe, Cataluccio intreccia testimonianze storiche e letterarie, ricordi personali lontani (era a Varsavia, nei giorni dell'incidente, e tornò in Italia radioattivo) e più recenti, dopo un viaggio fatto un anno fa sui luoghi del disastro. Chernobyl – città fantasma dove, di fronte alla centrale, “domina ancora un'enorme statua bronzea di Prometeo” – diventa, pagina dopo pagina, un monumento all'Insensato, soprattutto ora che si sta trasformando in una specie di “Disneyland della radioattività”. Nel libro si racconta il sistematico occultamento della verità che accompagnò quella tragedia, in sintonia con la gestione degli affari correnti e straordinari in Unione sovietica. “Sono colpito – ci dice Cataluccio – da certe similitudini con ciò che sta accadendo a Fukushima.

    Regimi politici molto diversi tra di loro, in circostanze storiche a loro volta molto differenti, sembra portino allo stesso tipo di opacità, alla volontà di tener nascoste le cose. Verrebbe da pensare all'atteggiamento del bambino che ha fatto una marachella e dice la verità a pezzetti”. Solo che di marachelle non si tratta, “e a essere trattati come bambini sono proprio i cittadini, lasciati a decifrare informazioni frammentarie, contraddittorie, parziali, omissive. La nuvola radioattiva prodotta da questi immani incidenti nucleari, a Chernobyl come a Fukushima, appare prima di tutto come una nebbia di carattere disinformativo. La mancanza di verità aumenta il panico e lascia spazio alle leggende metropolitane, proprio mentre più c'è bisogno di consapevolezza e di realtà”. Una vecchia tesi del movimento antinucleare è proprio quella che indica un elemento necessariamente “totalitario” nella gestione del nucleare. Valeva per l'Urss. E per il Giappone? “La differenza – risponde lo scrittore – è che nel 1986 il sistema politico sovietico era già fortemente in crisi, e si acuivano le contraddizioni tra molti suoi presupposti e la classe politica guidata da Gorbaciov. Il quale, almeno a parole, sosteneva di aver scelto la trasparenza. Di fronte all'incidente riemerse l'ideologia russa per eccellenza, quella del rimboccarsi le maniche, del volontarismo e del sacrificio. La stessa forza che ha permesso all'Urss di attraversare la Seconda guerra mondiale, un carattere originale di quel mondo.

    In Giappone la situazione di partenza è molto diversa. C'è una ditta privata, la Tepco, che ha l'appalto della centrale e che già nel passato aveva commesso scorrettezze”. Nell'incidente di Fukushima, aggiune Cataluccio, “sembra che l'unica responsabilità umana sia quella di non aver previsto l'intensità del terremoto. A Chernobyl gli errori umani si sommarono. Scienziati e tecnici cialtroni, proprio perché sapevano che la centrale non funzionava bene, avevano avviato un protocollo di simulazioni periodiche che prevedevano l'innalzamento artificiale della temperatura. Questo avrebbe provocato l'intervento di sensori che a loro volta avrebbero fatto scattare misure automatiche di raffreddamento. La sera dell'incidente, l'ingegnere che veniva da Mosca applicò il protocollo ma poi si spaventò della velocità con cui aumentava la temperatura. Azionò a mano i dispositivi di raffreddamento, prima che i sensori facessero partire le contromisure, e fu la catastrofe”.

    Poi, per mesi, “ci furono altri errori: soccorsi improvvisati e inefficaci, di fronte alle falle di una centrale nata obsoleta. Gli operai che hanno scavato a mano sotto il reattore, per proteggere il terreno, hanno davvero salvato il mondo e hanno pagato con la vita. I sovietici che lanciavano missili non potevano gestire una centrale nucleare”. In Giappone viene fuori “l'aspetto fragile di una gestione privata, nell'Unione sovietica del 1986 l'aspetto fragilissimo di quella statale. In entrambe le situazioni, nessuno è al riparo e nessuno mostra codici di comportamento onesti, nel momento in cui va storto qualcosa. A ben vedere – conclude Cataluccio – anche l'incidente giapponese sembra accelerare le debolezze di un intero sistema”.