Fuochi fatui

Così Cancellieri supera le forche parlamentari. Fra ringhi e battimani

Salvatore Merlo

Annamaria Cancellieri tentenna la testa, fra caparbia e turbata, “a differenza di quanto sostenuto da alcuni organi di informazione”, dice il ministro della Giustizia con toni e cadenze improvvisamente calanti o crescenti, da oboe, “non ho mai sollecitato la magistratura a rilasciare la signora Giulia Ligresti né indotto altri a simile comportamento”. In un pomeriggio qualsiasi di una giornata qualsiasi, l’Aula del Senato, e poi anche quella della Camera, ascoltano senza pathos la relazione del ministro, che si scagiona ed è scagionata da un Parlamento, torpido e introverso, in cui ciascuno recita il ruolo che il destino ha voluto assegnargli.

    Annamaria Cancellieri tentenna la testa, fra caparbia e turbata, “a differenza di quanto sostenuto da alcuni organi di informazione”, dice il ministro della Giustizia con toni e cadenze improvvisamente calanti o crescenti, da oboe, “non ho mai sollecitato la magistratura a rilasciare la signora Giulia Ligresti né indotto altri a simile comportamento”. In un pomeriggio qualsiasi di una giornata qualsiasi, l’Aula del Senato, e poi anche quella della Camera, ascoltano senza pathos la relazione del ministro, che si scagiona ed è scagionata da un Parlamento, torpido e introverso, in cui ciascuno recita il ruolo che il destino ha voluto assegnargli. E dunque la stranissima maggioranza difende il ministro, scortato dal premier Enrico Letta e dal vicepremier Angelino Alfano, mentre l’opposizione della Lega e del Movimento 5 stelle, con un conformismo senza crepe, ne chiede le dimissioni; tutto come da copione.

    “Cancellieri ha la nostra piena fiducia”, dice Alfano, e dunque il partito del Cavaliere non può che stare lì dov’è, alla destra del ministro ammaccato, perché la vicenda in cui Cancellieri è rimasta impigliata troppo ricorda quella di Silvio Berlusconi nel caso Ruby, la sua telefonata notturna alla questura di Milano con tutte le ben note conseguenze penali. E pure il Pd, che come al solito si divide e si contorce dalla sofferenza, incapace com’è di dissimulare e trarre vantaggi da eventi che sempre sembrano sovrastarlo, non può che stare alla sinistra del ministro contestato, mugugnando sommessamente, lì dov’è seduto il suo Enrico Letta e dove Giorgio Napolitano vuole che stia tutto il centrosinistra. E insomma ciascuno obbedisce forse a un presentimento piuttosto che a convinzioni o aspirazioni, persino il giamburrasca Matteo Renzi per qualche ora si consegna al silenzio, e così il voto di sfiducia contro la signora Cancellieri già non preoccupa più nessuno, circoscritto com’è alle sole eruzioni del grillismo senza briglia e del leghismo crepuscolare, potenza disordinata e plebea della collera popolare. Dunque i due capigruppo del Senato, Luigi Zanda e Renato Schifani, come i loro colleghi della Camera, Roberto Speranza e Renato Brunetta, gli uomini del Pdl e quelli del Pd, finiscono ciascuno con l’assumere il medesimo tono di voce, la stessa espressione facciale, persino le parole coincidono, riempite di creanza: “Cancellieri continui a lavorare per l’emergenza delle carceri”. E per una volta il daccordismo trova luogo ideale e si fa Spirito Assoluto dentro il Parlamento dove monsignor Letta, assieme a Napolitano, dice messa.

    Il Cav. tra decadenza e grazia
    Ma il futuro della grande coalizione resta incerto, il governo è tra parentesi, il daccordismo un episodio, l’avvenire incognito. Il Senato ha fissato per il 27 novembre il voto sulla defenestrazione parlamentare del Cavaliere e il governo, tra gli inciampi di Cancellieri e quelli del gran tecnico e ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, si avvicina debole e tremulo a questa fatidica data. Cancellieri esce viva, eppure indebolita dall’Aula parlamentare e così pure Saccomanni, il ministro dell’Economia le cui magherie di bilancio, le cui previsioni di crescita, già smentite dall’Istat, sono state negate, ieri, anche dall’Unione europea. Dalla crisi e dalla debolezza di questi due ministri così importanti, l’uno a tirare i fili della giustizia ingiusta, l’altro le leve dell’economia stagnante, pare scaturire la pena del presidente del Consiglio, la sua inerzia; il Parlamento, per lui, l’Aula che tra ventuno giorni dovrà votare la decadenza di Berlusconi, si contrae in una fantasmagoria nemica.

    In che condizioni arriverà Letta ad affrontare il passaggio più delicato dell’intera legislatura? E i tormenti che lo angustiano adesso scendono in forma di fiamme fredde, le fredde fiamme dei numeri e delle previsioni di crescita che nessuno sa interpretare, lì dove Letta (e Napolitano) sanno bene si possono incuneare formidabili argomenti per divellere la logica delle larghe intese, specie dopo che Berlusconi sarà espulso come un calcolo renale dal Senato. Quello dei numeri è un mondo incorporeo, contano le interpretazioni e i calcoli, e Letta e Saccomanni (“interdetto”, parole sue, per la polemica sulla differenza tra le stime del suo ministero e quelle dell’Unione europea) vi si aggirano con energia e determinazione simulate, vi brancolano – sembra – come nelle nebbie dell’Ade. “All’estero hanno fiducia nella capacità del governo”, dice Saccomanni, “ma sono preoccupati per la stabilità politica”. E insomma bisogna durare, malgrado i giorni si somigliano neri. Non è prudente disperarsi anzitempo, si ripete Letta, galleggiatore cauto. Berlusconi ha quasi chiesto la grazia al Quirinale. Dunque chissà.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.