Aspettando il Gran Consiglio

La dura gavetta di un segretario particolare che poi divenne Alfano

Salvatore Merlo

Sprofondato in una di quelle ampie poltrone nel salotto del Castello, una di quelle sulle quali di solito, prima, restava in bilico deferente, Angelino Alfano ha esposto al suo caro leader i brutali termini della questione: è necessario un accordo, scritto, da siglare oggi, o forse domani, in un ufficio di presidenza; poi – garantita la stabilità del governo – si potrà anche tenere il Consiglio nazionale, archiviare dunque il Pdl e lanciare Forza Italia, tra sorrisi e abbracci. Ed è con garbo, ma senza soggezione, con una certa comprensione di sé, della sua forza, dei suoi numeri in Parlamento, dei suoi galloni ministeriali, che Alfano, un tempo gregario, ormai si rivolge al suo padrino politico. Da pari a pari.

    Sprofondato in una di quelle ampie poltrone nel salotto del Castello, una di quelle sulle quali di solito, prima, restava in bilico deferente, Angelino Alfano ha esposto al suo caro leader i brutali termini della questione: è necessario un accordo, scritto, da siglare oggi, o forse domani, in un ufficio di presidenza; poi – garantita la stabilità del governo – si potrà anche tenere il Consiglio nazionale, archiviare dunque il Pdl e lanciare Forza Italia, tra sorrisi e abbracci. Ed è con garbo, ma senza soggezione, con una certa comprensione di sé, della sua forza, dei suoi numeri in Parlamento, dei suoi galloni ministeriali, che Alfano, un tempo gregario, ormai si rivolge al suo padrino politico. Da pari a pari. E chissà se davvero Berlusconi, l’altra sera, come raccontano, nella lunga notte delle trattative a Palazzo Grazioli, a un certo punto gli ha chiesto, stanco, con un indecifrabile lampo negli occhi, “ma ti ricordi quando avevi l’ufficio qui accanto al mio?”. E a quel tempo, dieci anni fa, il ragazzo venuto da Agrigento per fargli da assistente particolare era indifeso e ininfluente, ma ricettivo come una sibilla, discreto e ligio al suo impiego conformistico – “Angelino, le fotocopie” – come in un’armatura che lo difendesse dalla solitudine del subalterno, del portaborse, del ragazzo di bottega. Viveva nel Castello, Alfano, da mane a sera, in un ufficetto accanto a quello maestoso del Sovrano, e anche cenava con il suo Presidente, seduto a tavola accanto a lui, ma remissivo cedeva il posto a ogni nuovo e più blasonato commensale arrivato ad aggiungersi in quel porto animatissimo che è da sempre la residenza di Berlusconi a Roma, come ad Arcore. E dunque entrava Scajola, e Alfano scalava di un posto; entrava Tremonti, e Alfano scalava di un altro posto; entrava Letta, e lui si faceva ancora più in là, distante, silenzioso, finché, giunto in ritardo anche Denis Verdini, i posti non si esaurivano. E allora lui si alzava, senza emettere un fiato, senza tradire un’emozione, e andava a disseccarsi nel salotto di casa, a consumare il pasto, lo sguardo malinconico e ostinato dello scalatore indefesso, fra pochi libri e ampi divani, affranto come un nipotino abbandonato. Una modestia di tono e di carattere, la sua, che Berlusconi notava, altroché se la notava nel circo dei suoi insuperbiti cortigiani, chiassosi, sempre impegnati a dileggiarsi fra loro con fraternità pettegola e maligna. E una sorta di tenero compatimento, il seme d’una remota simpatia, germogliava per quel ragazzo che agli occhi dell’inarrivabile Presidente si rivelava il più devoto, il più discreto, nella misura d’una certa chiusa dignità siciliana. E lui, il giovane, intanto, pregustava la trasformazione del suo veleno nel farmaco della rivincita, cedeva il posto a Scajola, e poi abbandonava la sala inseguito da una battuta candidamente greve di Verdini. Ed era già spinto, chissà, da una specialissima febbre, da una forza irresistibile, da un indice di fuoco che lo incitava a compiere il suo dovere, a conquistare con pazienza il primato, per fare a tempo debito vendetta degli sgarbi subiti.

    “Ti ricordi quando avevi l’ufficio qui accanto al mio?”. Il ragazzo venuto dieci anni fa da Agrigento adesso rivede Berlusconi con distacco, come si incontra un estraneo, o nella contrizione che si deve ai morituri, gli si rivolge come un leader che parli a un altro e più anziano leader, dunque pone condizioni, e anche lui – come il Cavaliere – ha ormai una sua corte ministeriale, uno stormo di falchi (“dobbiamo rompere”, gli dice Giovanardi) e uno di colombe (“prendi tempo, tratta”, gli suggerisce Lupi), una costellazione di pianeti e piccoli astri politici che rotea soltanto attorno a lui come Daniela Santanchè e Gianni Letta, Sandro Bondi e Niccolò Ghedini gravitano intorno al sole del Cavaliere. E insomma gestisce un potere vero, governativo, è il vicepremier della grande coalizione, non passa giorno che non parli al telefono con Giorgio Napolitano, è il capo di una forte corrente, quasi un partito, può disporre di deputati e senatori, è il ministro dell’Interno. I giornalisti sono interessati al suo pensiero, ogni quotidiano ha un cronista impegnato a riportare e interpretare le sue mosse, a intercettarne le veline, gli umori, le inclinazioni occulte. Ora raccontano che un po’ la mano gli trema, che tentenna, ma che s’è spinto troppo in là per poter tornare indietro, teme d’essere caduto in una trappola mortale che l’aspettava da sempre al fondo di una fila innocente di piccole umiliazioni di corte; e dunque cerca un addio che suoni come un arrivederci, sogna un divorzio che sia reversibile. La sua statura è cresciuta, il suo odio e il suo amore per il capo fanno ormai un’unica gigantesca ombra sui muri dell’Italia politica, non è più soltanto l’Alfan prodige.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.