Berlusconi e il giorno degli sciacalli

Salvatore Merlo

“Speriamo vada tutto bene, altrimenti vuol dire che verrete a trovarmi a San Vittore…”. E cosa importa che sia un timore irrazionale, o forse una favola mostruosa come sibila pacato il suo gran difensore Franco Coppi; Berlusconi, che vi si è accostato, a poche ore dal voto sulla sua decadenza, oggi in Senato, sa che nessun inferno è meno incorporeo e più atroce del timore di perdere la libertà, vicenda minuziosamente, crudelmente umana. “E’ in atto una gara a chi mi agguanta prima tra le procure di Milano e Napoli”, dice il Cavaliere, fiero e triste, osservando i deputati e senatori della sua Forza Italia (“ora che siamo di meno siamo anche più simpatici”).

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    “Speriamo vada tutto bene, altrimenti vuol dire che verrete a trovarmi a San Vittore…”. E cosa importa che sia un timore irrazionale, o forse una favola mostruosa come sibila pacato il suo gran difensore Franco Coppi; Berlusconi, che vi si è accostato, a poche ore dal voto sulla sua decadenza, oggi in Senato, sa che nessun inferno è meno incorporeo e più atroce del timore di perdere la libertà, vicenda minuziosamente, crudelmente umana. “E’ in atto una gara a chi mi agguanta prima tra le procure di Milano e Napoli”, dice il Cavaliere, fiero e triste, osservando i deputati e senatori della sua Forza Italia (“ora che siamo di meno siamo anche più simpatici”). E per un attimo la sala della Regina, a Montecitorio, con i suoi marmi sontuosi e gli arazzi sbiaditi, s’invade d’una tetraggine illimitata, le parole di Berlusconi sono fredde e perenni, colano dall’alto sui parlamentari riuniti in silenzio attorno alla sua maestà in caduta, “siamo al dunque”. Ma il Cavaliere conserva in tasca una lama di speranza, “il voto non è scontato”, dice, lui che pure si porta addosso come un presentimento di sciagura, quasi una gobba: la decadenza e l’obbligo dei servizi sociali riflettono l’immagine della debolezza e della solitudine, dell’ultimo sfregio, la prigione per mano d’un pm in cerca di gloria, d’uno scalpo clamoroso, il suo, l’arresto cautelativo del gran Belzebù d’Italia, del Caimano. “E’ inverosimile”, dice Coppi, ma per Berlusconi un carcere (quello dei servizi sociali) può specchiarsi in un altro carcere e racchiuderlo; per lui il problema è sempre quello della libertà: dall’abuso della forza nasce l’orrore. E questa è una realtà che gela Berlusconi con le parvenze dell’incubo, “mi vogliono annientare fisicamente”. Eppure la rassegnazione, la mansuetudine, la certezza che si vince militando nella coorte degli sconfitti, tutto ciò non lo pervade. Oggi pomeriggio Denis Verdini ha organizzato una manifestazione sotto Palazzo Grazioli, poi andrà in scena il dibattito pirotecnico in Senato, a seguire il voto in Aula fra gli strepiti, infine un “Porta a Porta” forse destinato a entrare nella storia dell’Italia politica come quello del contratto con gli italiani. “E non finisce qua”, promette e minaccia il Cavaliere circondato, condannato e quasi espulso.

    “Non ci sono più le condizioni per proseguire nella collaborazione con questo governo”, dice Paolo Romani, il capogruppo in Senato, uomo della moderazione e della misura come cifra politica, “la decadenza di Berlusconi equivale alla morte della democrazia”, ruggisce stavolta. E la ri-Forza Italia si prepara così alla guerra guerreggiata, un movimento politico attraversato da un funesto, dionisiaco, quasi radioso furore: “Letta si deve dimettere, abbiamo già informato il Quirinale”, mormora tra i denti Renato Brunetta, che essendo fatto di polvere urticante trova la sua dimensione ideale in questo crepuscolare conflitto che ormai attende tutti con le sue incognite promesse. “Anche il maxiemendamento alla Legge di stabilità è irricevibile”, dice, “per quanto ci riguarda le larghe intese sono finite, con oggi si apre la crisi”. Enrico Letta ha ancora sette voti di vantaggio sulle opposizioni nel traballante Senato che da oggi sarà dunque la Camera dell’incertezza come ai tempi grami di Romano Prodi; l’Aula dei ricattucci, in balìa dei manipoli responsabili, delle trame neocentriste del solito Casini, delle vaghezze di Mario Monti, delle bizze e delle contorsioni di un Pd che sta per consegnarsi, l’8 dicembre, tra mille dolori, nelle ambiziose mani di Matteo Renzi. Per ciascuno degli attori sul proscenio un passato ancora prossimo è perduto e fermenta di asprezze, come per Giorgio Napolitano così per Letta, “la situazione non è semplice”, ammette il presidente del Consiglio, avaro di parole, ma illuminato d’una torbida luce di sfacelo, “adesso lavoro per evitare il caos”. Berlusconi ancora ieri notte, a lungo, fino all’ultimo, ha cercato nel rinvio del voto sulla sua decadenza la liberazione più difficile, come una pace, ma poi il Cavaliere, persuaso da un animoso fatalismo, si è arreso. Nemmeno il tiro alla fune sulla Legge di stabilità ha intimorito né ovviamente incrinato le contundenti certezze dei suoi avversari. E così raccontano che a tarda sera Berlusconi abbia ascoltato in televisione le parole di Danilo Leva e Roberto Speranza, dei leader del centrosinistra e del Movimento 5 stelle, “Berlusconi è l’antistato”, e il Cavaliere ha ricavato da quei volti “sprezzanti e sicuri” la purezza della persuasione cieca dei nemici. “E’ finita”, ha sospirato; la sua lunga, sconvolgente avventura politica è arrivata a un punto. “Ma anche il governo è arrivato al punto”, dice Daniela Santanchè, “dovevamo farlo prima”. E un rimpianto ne contiene un altro, come una scatola chiude un’altra scatola, “se avessimo riformato la giustizia…”.

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    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.