Decaduti in piedi

Così Forza Italia prepara la campagna dei cento giorni per il governicidio

Salvatore Merlo

“Noi restiamo in piedi”, dice Renato Brunetta con un soffio, quasi consegnando al giornalista un’ammissione di colpa o la parola d’ordine di una congiura. E d’altra parte Silvio Berlusconi è “tonico e pimpante”, dicono da Arcore, dove si è rinchiuso, in famiglia, con Marina e Pier Silvio, Francesca e Dudù. Studia il programma dei prossimi cento giorni all’opposizione, tra manifestazioni nei teatri e sogni euroscettici, referendum, proclami, boicottaggi costituzionali (Brunetta e Paolo Romani, ieri al Quirinale).

L'editoriale Il paradosso del Cav. Zagrebelsky - Napolitano: "Con nuova maggioranza serve un passaggio parlamentare". E Forza Italia può bloccare le riforme - Brunetta Le elezioni del febbraio scorso sono nelle mani della Suprema Corte

    “Noi restiamo in piedi”, dice Renato Brunetta con un soffio, quasi consegnando al giornalista un’ammissione di colpa o la parola d’ordine di una congiura. E d’altra parte Silvio Berlusconi è “tonico e pimpante”, dicono da Arcore, dove si è rinchiuso, in famiglia, con Marina e Pier Silvio, Francesca e Dudù. Studia il programma dei prossimi cento giorni all’opposizione, tra manifestazioni nei teatri e sogni euroscettici, referendum, proclami, boicottaggi costituzionali (Brunetta e Paolo Romani, ieri al Quirinale). E dunque il Cavaliere interviene in viva voce alle riunioni dei suoi cortigiani raccolti a Roma nel fortino di piazza San Lorenzo in Lucina, non li lascia respirare, tesse e disfa, ordina e disordina in quel caos che è il suo elemento naturale; “lavoriamo come bestie”, è lo slancio serpigno della Pitonessa Santanchè: i capigruppo di Camera e Senato si incontrano, si lasciano e si riuniscono ancora, c’è da decidere cosa fare con i sottosegretari di Forza Italia, si devono dimettere o no?

    Conviene assecondare la guerriglia, solleticare le vaghezze di Monti, le golosità di Casini, le ubbie di un Pd che si tortura, scatenare insomma un gioco di nervi ai piedi dell’instabile trono dove siedono incerti Giorgio Napolitano ed Enrico Letta. Forza Italia non voterà le riforme costituzionali. E così la decadenza per il Cavaliere non coincide con il momento topico del disfacimento, “nell’opporsi al destino e nel reagire al tradimento, Berlusconi spiega le doti della salvezza: la perseveranza e l’audacia”, esulta, non senza enfasi, Mariastella Gelmini. Eppure è questa l’aria che tira nel Castello, l’epica caduta del semidio, interdetto per sei anni dalla legge Severino, si consuma in uno strano clima indaffarato. Lo scenario dovrebbe essere fosco, ma persino una parte della sinistra, gratta gratta, si sente a disagio, non avverte quel senso di sazietà e di vittoria piena che pure dovrebbe attraversarli tutti, come un brivido di piacere. Luciano Violante passeggia curvo e dubbioso tra Montecitorio e il Quirinale, Letta sbuffa, Casini fa un prosaico esercizio di scetticismo, “è stata una cazzata”, e sotto i baffi anche Massimo D’Alema non ha difficoltà a dire che “non c’è nessuna ragione di brindare”. Negli uomini del Pd è sconvolgente il duello solipsistico che li attraversa, lo scampanio d’alleluia che gli trionfa nell’orecchio (“l’abbiamo azzoppato”) e il campanello d’allarme che prende a trillargli dentro l’altro (“attenti, il morto s’è fatto vivo”). E insomma per loro il Cavaliere può sopravvivere a lungo, imperando sulla sua tribù promiscua, patriarca decaduto e interdetto.

    E d’altra parte morire è un verbo altrettanto incoativo che vivere, entrambi esprimono l’inizio di un’azione. Così ieri pomeriggio Renato Brunetta e Paolo Romani, i due capigruppo di Forza Italia, sono saliti al Quirinale e hanno consegnato, tra sorrisi e ovvi salamelecchi, una dichiarazione di guerra nelle mani di Giorgio Napolitano: “Le riforme costituzionali del governo noi non le votiamo”. La piccola coalizione si svuota improvvisamente di senso, non ci sono più i famosi “due terzi”, cioè la soglia di voti necessari in Parlamento per modificare la Costituzione senza incorrere nella trappola del referendum confermativo. “Napolitano potrebbe anche trarne le conseguenze”, insinua maligno Giancarlo Galan. E infatti, il presidente della Repubblica fa sapere di voler portare in Parlamento la nuova maggioranza, forse ci sarà un voto, forse no, ma Napolitano “deve aprire la crisi”, dice Brunetta. E l’arma di Brunetta è il cattivo carattere, ma sotto questo cattivo carattere si nascondono un’abnegazione calcolata e una pazienza frenetica, a lui il compito di far ammattire il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, mentre ad Arcore, nido delle aquile decadute, si dispiega una strategia “in cento giorni”, quelli che secondo i piani del Cavaliere lo separano dalle adorate elezioni alle quali non potrà candidarsi. Al telefono con i generali del berlusconismo si avverte un torrido mormorare di frasi sotterranee, di riunioni al curaro, di escogitazioni strategiche, e in questo rullare di tamburelli si preparano “dieci, cento, mille colpi di cannone”, e gli argomenti sono da stordimento: l’economia, l’euro, le tasse. “Gli facciamo saltare i nervi”, sibila Maurizio Gasparri, “ed è semplice come un’avemaria”.

    Raffaele Fitto, che nella politica professionale ci è nato, forse più di tutti afferra lo spirito del momento, “non si è ancora consumato l’epilogo”, dice, “siamo vivi, abbiamo un programma, un piano di combattimento. Era peggio a novembre del 2011”, quando Berlusconi andò in macchina a dimettersi di fronte al gran nemico presidente della Repubblica, con gli occhi rossi e le dita deluse, a sfilare ingannevoli assi di poker, colpito da una penombra ingrata, lo sguardo affranto da livori e timori, mentre una folla mostruosa, assiepata sotto Castello Grazioli, dispiegava i suoi poteri torvi, il suo gioire sinistro per le dimissioni del Caimano sconfitto, il suo gonfiarsi di bile a spese del Cavaliere al declino, l’uomo al crepuscolo, colui che personificava la potenza disfatta. E invece mercoledì, a via del Plebiscito, sotto il palco, nel giorno della decadenza, la scena è stata l’opposto: una strana piazza, festante nel lutto. E lui stesso, il Cavaliere decaduto, aveva nella voce, insieme all’indignazione che ne svisava i toni mesti, e insieme ai mille arcinoti solluccheri di gioventù, inequivocabilmente anche un gorgoglìo di animosa baldanza, “io resto qui”, con un’aria di cocciutaggine famelica. E insomma, a novembre 2011 sembrava davvero la fine, Berlusconi si trovò costretto in una gabbia di sconfitta, il Corriere della Sera celebrò la sua dipartita con un libretto intitolato “Dieci giorni”, quelli del crollo, lo sfarinamento del colosso, il crepuscolo di un’epoca. Oggi, meno assertivo, nel suo libro “La caduta”, Francesco Bei, giornalista politico di Repubblica, lascia invece intendere che in Berlusconi nulla è definitivo, nemmeno la morte, “e la scena finale del Caimano è rimasta su celluloide”.

    L'editoriale Il paradosso del Cav. Zagrebelsky - Napolitano: "Con nuova maggioranza serve un passaggio parlamentare". E Forza Italia può bloccare le riforme - Brunetta Le elezioni del febbraio scorso sono nelle mani della Suprema Corte

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.