Sacrifici umani

Salvatore Merlo

E’ come se avesse un fiuto esatto delle debolezze dei suoi committenti e remoti avversari, i politici e i grandi burocrati dello stato, piccole deità della dissipazione, “se vogliamo tagliare ci saranno resistenze”, dice, sollevando lo sguardo su una stanza piccina e un po’ triste che gli fa da studio a via XX Settembre, ministero dell’Economia, un santino ingiallito di Giorgio Napolitano incorniciato da un ramoscello d’ulivo (secco), un inquietante ritratto d’anonimo deputato con baffi umbertini (“non so chi sia”), un gagliardetto dell’Inter su modesta scrivania impiegatizia (“la mia debolezza”).

    E’ come se avesse un fiuto esatto delle debolezze dei suoi committenti e remoti avversari, i politici e i grandi burocrati dello stato, piccole deità della dissipazione, “se vogliamo tagliare ci saranno resistenze”, dice, sollevando lo sguardo su una stanza piccina e un po’ triste che gli fa da studio a via XX Settembre, ministero dell’Economia, un santino ingiallito di Giorgio Napolitano incorniciato da un ramoscello d’ulivo (secco), un inquietante ritratto d’anonimo deputato con baffi umbertini (“non so chi sia”), un gagliardetto dell’Inter su modesta scrivania impiegatizia (“la mia debolezza”). Lo squallore è ricercato, oleografico, fa parte del ruolo, questa è una tana austera e penitenziale – lei non è mica protestante? “cattolico” – e il suo inquilino compare con umiltà di potente, di mestiere adopera la penna sul bilancio dello stato come il chirurgo adopera il bisturi nell’estrazione dei calcoli renali o al fegato.

    Ogni colpo di penna è un trauma, un dolore, “che qualcuno potrebbe voler anestetizzare”. Tagliare, tagliare, tagliare. “Ma per abbassare le tasse”, aggiunge con inflessione lombarda. E negli occhi, che tradiscono un sorriso franco sul volto di cinquantanovenne molto all’americana, dai movimenti atletico-flessuosi, brilla la spietata intelligenza d’un uomo teso nello sforzo d’apparire ottimista, “l’Italia si piange troppo addosso”. Ma l’Italia è pur sempre il paese degli imbrogli, delle truffe nelle aziende municipalizzate di Roma, degli impiegati che fanno la cresta sulla ricotta, delle abitudini lassiste nel settore pubblico; l’italiano ha un tale culto della furbizia che arriva persino all’ammirazione di chi se ne serve a suo danno. E Carlo Cottarelli allora fa un cenno impercettibile, piega d’un millimetro la testa brizzolata, “non serve l’impeto moralista contro la frenesia dello spreco”; d’altronde anche il moralismo è sospetto, “agli italiani bisogna offrire prospettive di crescita”, dice, “il mio lavoro farà avere più soldi in busta paga”, e forse davvero questo economista che per ventisette anni ha lavorato in America al Fmi crede di poter trionfare sulle inerzie e le comode abitudini italiane.

    “Questo è il paese che nel calcio ha battuto la Germania per sedici anni di fila, è il paese della Ferrari, una terra di grande fantasia e intelligenza”. Arrota le erre, ma senza affettazione, quasi con ritrosia, e ride d’un riso silenzioso che subito si gela, “ma ci sono troppe tasse”, dice. “E per abbassarle bisogna contenere la spesa”. Licenzierete gli statali? “Suggerirò dei sistemi per eliminare gli esuberi. Ma ci saranno cavalli di frisia da travolgere”, poteri consociativi, politici, paludosi e sublimi, “allora è necessaria la pressione dell’opinione pubblica. Diffonderò i dati sulle spese dello stato. La legge Brunetta sulla trasparenza è rimasta inattuata, è una buona legge”. Ed è per questo che è andato ospite a “Uno Mattina”, di fronte a un pubblico di massa, casalinghe, pensionati, studenti che marinano la scuola; è come se volesse parlare direttamente al popolo. Si è fatto intervistare dal Tg5, da Studio Aperto, da Lilli Gruber, s’è spinto dove non aveva osato il suo predecessore, Enrico Bondi, un gigante sul quale è sceso un oblio con pochi spiragli, gli spiragli dei repertori, generici come gli epitaffi (“in televisione non cerco la popolarità, ma la trasparenza”). E dunque sforza la sua evidente ritrosia caratteriale – ha un bel sorriso ma non è a suo agio – e riceve manipoli di giornalisti, pettegoli, intelligenti, petulanti, curiosi, pigri, preparati; a settimane alterne invadono questa sua piccola stanza sonora, per via dei finestroni che danno sulla strada, anche cinque interviste al giorno, e poi a piedi verso gli uffici di Palazzo Chigi, avanti e indietro: Carlo Cottarelli è secco come un ulivo, “non ho l’autoblù, ogni tanto vado a correre la domenica”.

    Il predecessore Bondi ha fallito, quello di chi deve tagliare la spesa è un sentiero agevole dapprima, poi a poco a poco impervio e come oscurato in una foresta. “Io farò un lavoro diverso”, sorride con occhi piccoli, ma scuri ed energici. Sopravviverà al governo di Enrico Letta? Scrollata di spalle, lieve imbarazzo. Il contratto, d’oro, è fino al 2016, ma quella con la politica non è una convivenza facile, è una coesistenza necessaria. I politici mirano al consenso, a durare, e coltivare il consenso significa rimettersi al pubblico e alle sue abitudini, sobbarcarsi i suoi gusti, abitualmente e autoassolutoriamente pigri e parassitari. “Ho molta fiducia e stima per Saccomanni, lo scriva, è importante ed è vero”, sorride con pupille guardinghe, ed è come se temesse la solitudine, chissà, con un senso ambiguo di fiducia e di vuoto.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.