Odi et Amo. La fascinazione del Cav. per Matteo

Salvatore Merlo

“Dall'autobus sono scesi D'Alema, Veltroni, Bersani e Bindi. Io no”. Ed è col suo sorriso difficile, ma costante anche nei momenti di pericolo, che Silvio Berlusconi soppesa la vittoria del trentottenne Matteo Renzi, più infante dei suoi figli, lo guarda di sottecchi questo giovane avversario, gli telefona a mezzanotte per complimentarsi, compiaciuto e incerto, pauroso e complice, dolce e improvvisamente sprezzante, “ancora deve farsi le ossa”.

    “Dall’autobus sono scesi D’Alema, Veltroni, Bersani e Bindi. Io no”. Ed è col suo sorriso difficile, ma costante anche nei momenti di pericolo, che Silvio Berlusconi soppesa la vittoria del trentottenne Matteo Renzi, più infante dei suoi figli, lo guarda di sottecchi questo giovane avversario, gli telefona a mezzanotte per complimentarsi, compiaciuto e incerto, pauroso e complice, dolce e improvvisamente sprezzante, “ancora deve farsi le ossa”. E tra lui e Renzi sono cicalecci sulla riforma elettorale, saluti, sospettose moine, “un trionfo, Matteo, non avevo dubbi, ma solo perché non correvo io”, gli ha detto. E d’altra parte a entrambi sta bene il ritorno al maggioritario, dunque chissà, il Cavaliere vede sempre la possibilità di concludere un buon affare, e il menabò confuso della sua vita, tra elezioni e continuità, improbabili alleanze con Beppe Grillo, impeachment presidenziali e dimissioni parlamentari di massa, non prende mai una forma definitiva. Ma la vittoria del ragazzino lo ha anche impressionato, l’ha fatto invecchiare di mille anni nel confronto pubblico (Kim il Cav. di fronte a John Fitzgerald Renzi), ma forse l’ha fatto pure ringiovanire di vent’anni nella manovra di Palazzo, proprio quando gli spazi sembravano invece chiudersi inesorabilmente. Sentimenti ambigui, dunque, odi et amo. “Siamo in attesa mobilitata”, sintetizza Maurizio Gasparri, che nel partito recita il ruolo fatalista e moderato del politico di lungo corso, sospeso come in magico equilibrio nella polifonia di sentimenti che il Cavaliere agita in quel manicomio di contegni chiamato Forza Italia, fra i timpani cupi di Daniela Santanchè e Renato Brunetta (“dobbiamo dimetterci tutti, assieme ai 5 stelle e andare al voto, Renzi è un democristiano e s’è messo d’accordo con Letta”) e i placidi violini di Raffaele Fitto e Paolo Romani (“con Renzi adesso abbiamo un interlocutore”). E insomma, con il piccolo segretario fiorentino Berlusconi può scegliere di rientrare nel gioco, nelle trattative sulle riforme; oppure accodarsi dolcemente verso il precipizio elettorale. E come al solito nulla è deciso, tutto possibile.

    Circondato dalla sua immutabile corte politica, il Cavaliere osserva i suoi nemici d’un tempo cadere come birilli, gli uomini con i quali per vent’anni s’è vicendevolmente garantito una vita dolorosa, D’Alema, Veltroni, Bersani, Bindi, tutti rottamati dal ragazzino di Firenze. Non che gli dispiaccia, in lui sono in questione sentimenti d’orgoglio, rivalsa, desiderio, rancore, tutti ingredienti d’una vicenda classica.

    Eppure inevitabilmente anche lui avverte attorno a sé come la sensazione d’essere circondato da vibrazioni ostili, un trentenne contro un settantenne. “Ma Renzi non è un problema per Berlusconi. E’ un problema per Enrico Letta, quello il Pd lo sfascia. Il nostro confronto è con Grillo, la tv contro internet”, sibila la Pitonessa Santanchè, come nello sforzo estremo d’un esorcismo, d’un magico e salvifico rituale a beneficio del suo Capo. Negli ambigui rapporti che Berlusconi conserva con Renzi, nel loro pubblico evitarsi (e privato cercarsi), non cessa d’alitargli attorno un’aura di sottile e incorporea alienità, che gli impregna abiti, lessico, accento, contegno, e lo rende imparagonabile al suo nuovo giovane avversario, “certe volte è un po’ ridicolo”, ha sorriso Berlusconi l’altra sera, guardandolo in televisione, malgrado subito dopo abbia esultato quando Renzi ha sfotticchiato Gaetano Quagliariello (“Quagliariello sta lì per non fare la riforma elettorale”). Ma il lancio dei club Forza Silvio, domenica, è stato oscurato dalle primarie del maghetto di Firenze, persino sui giornali di famiglia; delle vittoriose giostre politiche d’un tempo, il Cavaliere conserva una rimembranza nebbiosa, come delle eroiche traversate di gioventù. E forse per questo Berlusconi accompagna con un sorriso profano lo sgranarsi della vecchia voce seducente, “i club rappresentano il nostro rinnovamento”, dice, malgrado il suo discorso, domenica a Roma, sia stato anche per lui un insieme di cose udite, lette, viste, una specie d’intreccio di repertorio, amministrato con consumata perizia, un miraggio della memoria, con il contravveleno dell’ironia, però, che sempre l’aiuta a salvarsi dalle vipere della musealizzazione in vita.
    Ma di tutti gli eventi, compresa la vittoria del giovane Renzi, lui si sforza d’inseguire una possibilità romanzesca che lo riempie d’uno strano orgoglio, “la palla è di nuovo a centrocampo”, ha confessato ieri sera ai suo fedelissimi, quei cortigiani che ancora una volta, come ai tempi di Alfano, sono stati divisi in due squadre dal loro inconoscibile Sovrano, i nuovi falchi e le nuove colombe, i sostenitori del grillismo berlusconiano e i fautori della linea trattativista con Renzi, tutti strumenti d’un’orchestra confusa che sempre ha un solo direttore: Lui. “Vuole votare il prima possibile, e Renzi è l’attore politico che può fare tutto il necessario”, dice Gasparri, “ci sono notevoli margini di manovra, di discussione, di trattativa”, c’è la riforma elettorale, ma ci sono anche le riforme istituzionali, un gioco che Berlusconi è tentato di giocare sul serio col suo avversario-nipote fiorentino. E dunque, ultimo sopravvissuto d’una stirpe secondorepubblicana cancellata dal Rottamatore, il Cavaliere prova il piacere d’apparire insieme pupo e puparo in quest’ultima opera di pupi della sua vita politica: Lui assieme al mostro imberbe che s’è divorato gli arzilli vecchietti, i suoi antichi nemici diessini. Come andrà a finire non lo sa nessuno, ma il Cavaliere s’aspetta una telefonata.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.