L'ombra del forcone

Salvatore Merlo

I primi arrivano oggi con i treni della sera, da Genova, da Torino, secondo la polizia si mischieranno con la tifoseria autoctona da stadio Olimpico, temibile – lei sì – in quanto addestrata nei circhi massimi del teppismo. E a Roma già si predispongono le misure di sicurezza, eccezionali, in uno strano clima, al di sopra del rigo. Angelino Alfano si veste da Mario Scelba, mentre il presidente della Repubblica, solitamente misurato, invita alla “massima attenzione”.

    I primi arrivano oggi con i treni della sera, da Genova, da Torino, secondo la polizia si mischieranno con la tifoseria autoctona da stadio Olimpico, temibile – lei sì – in quanto addestrata nei circhi massimi del teppismo. E a Roma già si predispongono le misure di sicurezza, eccezionali, in uno strano clima, al di sopra del rigo. Angelino Alfano si veste da Mario Scelba, mentre il presidente della Repubblica, solitamente misurato, invita alla “massima attenzione”. E così comincia domani la tammurriata dei Forconi a piazza del Popolo, come nella scena finale di "Allonsanfan", il film di Paolo e Vittorio Taviani, fra attese e proclami guerreschi, terrorismo mediatico, e opportunismo politico. Anche gli studenti scendono in piazza, si scontrano con la polizia a Milano, e insomma c’è chi dice che è scoppiata la rivoluzione, e l’Italia, smagata spettatrice, ancora non sa cosa mettersi. Ma la danza, tarantella o tammurriata, domani a Roma inizia, com’è stato annunciato, senza Mariano Ferro e senza Lucio Chiavegato, i rasposi orsi polari della rivolta, polo nord e polo sud di questo inafferrabile movimento protestatario, l’uno siciliano e l’altro veneto, ma gemelli, e non solo per averci entrambi propinato in questi giorni tanti caldi strafalcioni (non ci sono più “allibbi per lo sviluppo autogeno” dell’attività agricola). Il nord e il sud finalmente uguali. Entrambi ricordano gli industriali del fico d’India, come si diceva una volta per indicare l’industria della patacca, quella che negli anni Sessanta produsse imprenditori che ottenevano finanziamenti regionali per impiantare, nientemeno, “fabbriche di fichi d’India”. E anche Ferro e Chiavegato, come Danilo Calvani, l’arruffapopolo laziale che si fa scarrozzare in Jaguar, hanno alle spalle opache storie di fallimenti, baruffe con il fisco, rapporti con la politica. In Sicilia la modesta agricoltura è ancora sovvenzionata, e Ferro nel 2012 si candidò alle regionali. Raccolse un drammatico 1,55 per cento. Con Chiavegato e Calvani compone il terzetto di nomi che il destino aduna sotto la sigla Forconi. “Hanno un nome evocativo, ma sono pochi, e non sono né popolo né ceto medio”, dice Dario Di Vico.

    E insomma i Forconi sono come la testa d’un corteo che tuttavia, alle loro spalle, non si forma. Vogliono rappresentare il disagio animoso delle piccole e medie imprese, dei tanti imprenditori che fanno la ricchezza d’Italia, e che adesso soffrono, investiti dai marosi della crisi. “Ma il ceto medio, tra i Forconi, non c’è”, dice Di Vico, “non li segue”. E l’editorialista economico del Corriere della Sera conosce bene quel mondo in pena. “A Torino erano 500 persone. All’assemblea del Pd, per dire, sono il doppio. I Forconi non sono la pancia del paese, come hanno scritto alcuni giornali. Se in piazza ci fosse il ceto medio ora ci sarebbe la rivoluzione”. E dunque cosa sono i Forconi? Dei loro leader, uno ha ceduto l’attività alla moglie dopo il fallimento del padre, l’altro combatte da decenni contro il fisco, l’altro ancora ha vissuto sui finanziamenti a pioggia che la Sicilia ha a lungo destinato alla modesta industria agricola regionale (di cui assessore è stato anche Giuseppe Castiglione, fedelissimo di Alfano, il ministro dell’Interno con cui Mariano Ferro, inevitabilmente, ha avuto più di qualche contatto). “Polentoni e terroni si sono uniti”, dice Ferro, con orgoglio, perché riconosce in sé la storia anche di Chiavegato. E Chiavegato, indipendentista veneto, negli ultimi anni, divenuto leader dell’associazione Life (Liberi imprenditori federalisti europei), non lontana dalla Lega di Luca Zaia, si è dedicato alla divulgazione di opuscoli su come resistere alle ispezioni della Guardia di Finanza.

    Dunque i Forconi non rappresentano l’ascesa rivoltosa di una classe media pragmatica, né tanto meno sono la plebe affamata, il tumulto del pane ai tempi dei "Promessi Sposi". C’è semmai l’industria del fico d’India, quella di cui le piccole e medie in prese italiane ovviamente diffidano. “Sono un movimento in franchising”, spiega Di Vico, “pochissimi padroncini veneti, qualche mercatali di Torino, alcuni agricoli siciliani, una parte ultraminoritaria degli autotrasportatori e poi la teppa dello stadio. E sono questi, gli ultras, a costituire il nocciolo duro, fanno numero e sono violenti”. E dunque non sono né i borghesi, né i Vespri siciliani, né i garibaldini che accompagnarono l’agonia dell’antico ordine aristocratico e borbonico nell’Italia di fine Ottocento. E dietro, nell’ombra, non s’agita nemmeno una complessa sociologia economica del tumulto, ma “ultras da stadio”, appunto. Tra i Forconi non c’è nemmeno Calogero Sedara, l’efficiente cafone del “Gattopardo”, cioè l’uomo nuovo come deve essere, il borghese che travolge l’antico potere: “Egli procedeva nella vita con la sicurezza di un elefante che, svellendo alberi e calpestando tane avanza in linea retta non avvertendo neppure i graffi delle spine e i guaiti dei sopraffatti”. E Di Vico spiega, con il distacco dell’entomologo. “Dai Forconi, se ci fate caso, non emerge proprio nulla. Sono genericamente contro le tasse e contro il governo, ma cosa vogliono? Vogliono che si abbassino le accise? Non lo sanno nemmeno loro”. Restano appesi alla visione pensile d’un generico sentimento rivoltoso che non precipita in una rivendicazione. Non hanno più soldi, dicono, “siamo tutti falliti”, esplodono, ma non hanno una piattaforma politica, rifiutano la rappresentanza, vivono come in una bolla d’aria rancida, in uno stato di sovreccitazione. E si compiacciono dell’eccesso. “Marciamo su Roma e li mandiamo tutti a casa”, ha urlato, l’altro giorno, Calvani. In Italia la rivoluzione non sale le scale di Palazzo Chigi sulle scarpe scombinate di Ferro, Chiavegato e Calvani. Eppure esplode nell’allarmismo mediatico e politico, in soggiorno davanti agli schermi al plasma, si combatte sdraiati sul divano lanciando insulti su Twitter e masticando la cena, una mano sulla forchetta e l’altra sul telefonino. Così in questo universo inafferrabile, in questo deserto di idee, in questo tempo fermo e vanamente tumultuoso, qualcosa tuttavia accade e risveglia i demoni incongrui dell’antistato, del plebeismo, dell’esasperazione per un mondo, quello della politica, che tra incuria e sentimenti inariditi forse porta in faccia i segni della morte. Che tuttavia, dice Di Vico, “non avverrà certo per mano dei Forconi”.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.