Nap. e i tre pestiferi

Salvatore Merlo

Non lo capiscono e lui non li capisce, e dunque si rivolge a Berlusconi e a Grillo, a loro chiede di non “evocare golpe immaginari”, anziano e magro si cala con precauzione nella poltroncina di broccato, nello studio del Quirinale, e agli sberleffi da palcoscenico, alla recitazione ribalda, diligente risponde sempre per iscritto, corregge, rilegge, poi diffonde seguendo un cerimoniale dominato da una regolarità avversa e monotona.

    Non lo capiscono e lui non li capisce, e dunque si rivolge a Berlusconi e a Grillo, a loro chiede di non “evocare golpe immaginari”, anziano e magro si cala con precauzione nella poltroncina di broccato, nello studio del Quirinale, e agli sberleffi da palcoscenico, alla recitazione ribalda, diligente risponde sempre per iscritto, corregge, rilegge, poi diffonde seguendo un cerimoniale dominato da una regolarità avversa e monotona. E quando Matteo Renzi si presenta nel fasto del salone degli Specchi con un abito color ghiaccio, anche lì, nel tono di una didattica pazienza lui non può far a meno di notare quello stridore moccioso fra tante grisaglie e gessati. Il protocollo.

    Testa ordinata un po’ scolasticamente e linearmente, lui cerca che i dati della sgangherata politica italiana quadrino tra loro secondo un rigido geometrizzarsi, ma di fronte a sé riconosce soltanto una capitale incoerenza, personaggi che considera storti, anguilleschi, e che devono dargli – così vuole la leggenda di Palazzo – anche un po’ di fastidio fisico. E così l’idea delle dimmissioni talvolta lo ha sfiorato, forse avvolto, ma mai vinto, perché anche le dimissioni, che considera una fuga dal dovere, gli sono estranee come gli sono estranei Berlusconi, Grillo e Renzi. E insomma quello di Giorgio Napolitano è un dramma vero, estetico e politico, antropologico direbbe Eugenio Scalfari. Pignolo, vorrebbe mettere la punteggiatura agli sgrammaticati, ma non è possibile, e forse per questo si rifugia nel folto delle regole, e costituisce commissioni di “saggi”, rigorosi come lui e un po’ parrucconi, professori che gli fanno da schermo. E dunque non può guarirli da loro stessi, i tre tenori arruffoni della politica, né può fingere che non esistano, ma al contrario deve ascoltarli, averci persino a che fare, e con una sofferenza inimmaginabile, tra insolenze senili e protervia giovanile, protetto, a mo’ di corazzieri, dal solo congiuntivo zoppicante di Angelino Alfano e dal condizionale, modo verbale e anima del governo di Enrico Letta.

    Quando il futuro presidente della Repubblica si trasferì da Napoli a Roma, capo della commissione culturale del Pci, i comunisti della capitale, che sempre sono stati anomali comunisti dotati di sense of humour, dopo averlo osservato un po’, presero a chiamarlo, con bonaria ironia, “il prefetto”, per via di quel suo modo di condursi che non aveva nulla di morbido, d’una rigidezza e d’una pignoleria démodé, teorica, da manuale per giovani proletari. E insomma per gli smagati romani, quel napoletano alto alto e magro magro che si diceva, un po’ per celia, figlio del principe Umberto, era, o forse personificava, quello che c’è di rigoroso, e di intransigente, antiquato e chissà persino di tragico, in una fase rivoluzionaria che non è terminata (lui invece, niente affatto turbato, chiese di incontrare Guttuso, “il grande pittore”).

    Ed ecco che “il prefetto”, oggi divenuto presidente della Repubblica, reso più elastico dall’esperienza e dall’esempio di Carlo Azeglio Ciampi, ma sempre estraneo a quel mondo favolistico che per esempio consente al suo amico Emanuele Macaluso di stendere uno sguardo di remota comprensione persino verso il Cavaliere burrascoso, ecco che questo rigido presidente si trova oggi nell’assurda condizione di aver a che fare, nei ruoli dei tre principali attori politici sul proscenio, con un tizio che lo chiama “Morfeo”, con un altro che parla a giorni alterni di “golpe e rivoluzione”, e con un terzo che usa metafore estrapolate da Topolino (“ci si aspetta molto da me, ma non sono Superpippo”).

    Quando Grillo andò a trovarlo al Quirinale per le consultazioni, ingolfato in una giacca troppo stretta, con i decorativi Crimi e Lombardi e un paio di Ray-Ban, tanta era l’attesa teatrale che persino Massimo Cacciari si scoprì spiritoso: “La cosa sarà talmente surreale che darei un anno della mia vita per assistere”. L’uomo che in una polemica epistolare con Ingrao rivendicò di non aver “mai fatto una battuta in vita mia”, ha accompagnato la sua rigidità, negli anni e col tempo, con una semplicità signorile, devota al culto dello stato, un’incandescente passione che tuttavia oggi Napolitano deve sentire al tempo stesso come una dissipazione. Non fa battute, e dunque ogni tanto pensa ancora alle dimissioni. E chi potrebbe dargli torto?

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.