Sul ring con Renzi e Alfano/2

L'onesto Alfano un po' in bambola, pressato dai fantasmi del Cav. anche mentre Renzi lo incalza

Salvatore Merlo

Non sa fingere noncuranza e spiritosa frivolezza, non ha la disinvoltura ludica del suo maestro Silvio Berlusconi, e dunque appena il segretario ragazzino lo incalza, creatore non profondo ma giocoso e sorgivo di fantasie e intuizioni, Angelino Alfano va in bambola, gli risponde con fervori un po’ noiosetti e quadrati. “Sediamoci attorno a un tavolo e discutiamo di come riformare il Senato. Parliamo di tutto e poi decidiamo”, gli dice balbettando.

    Non sa fingere noncuranza e spiritosa frivolezza, non ha la disinvoltura ludica del suo maestro Silvio Berlusconi, e dunque appena il segretario ragazzino lo incalza, creatore non profondo ma giocoso e sorgivo di fantasie e intuizioni, Angelino Alfano va in bambola, gli risponde con fervori un po’ noiosetti e quadrati. “Sediamoci attorno a un tavolo e discutiamo di come riformare il Senato. Parliamo di tutto e poi decidiamo”, gli dice balbettando. E senza nemmeno tentare una battuta pungente, mentre quello insiste sadico (“ci stai, o no?”), offre invece un sorriso vuoto quando gli viene detto, con fare contundente, che “nei paesi normali non c’è un ministro delle Riforme come Quagliariello. Nei paesi normali le riforme si fanno e basta”. La giornata del vicepremier è stata complicata, Alfano sembra subire persino fisicamente l’altalenante pressione del Cavaliere bizzoso, teme d’essere scavalcato dal suo vecchio padrino politico nella trattativa sulla riforma elettorale, intuisce, dietro ogni angolo, l’oscura presenza della marginalità. E dunque, perseguitato dalle invettive di Sandro Bondi (“Alfano non deve andare al vertice del Ppe cui è stato impedito di partecipare a Berlusconi”) e infastidito dall’urticante opposizione di Renato Brunetta alla Legge di stabilità, quando arriva alla presentazione del libro di Bruno Vespa, alle 17 e 30, a piazza di Santa Chiara, il vicepremier appare triste e insieme felice, indeciso, forse bisognoso d’aiuto. E così, nella piccola sala d’un teatro gonfio di cronisti e telecamere, Alfano rende in una scintilla l’interezza di un tempo scaduto, inesorabilmente consumato; che forse gli fa sentire fredda la fronte. Ad aiutarlo non c’è nessuno. I giornali scrivono delle trattive tra il Pd e Berlusconi sulla legge elettorale, Vespa infierisce con tenerezza, e per lui comincia così un lungo, fiaccante dibattito in difesa (“il nostro è un governo non un convegno”), con sporadiche incursioni, “tu attribuisci a Renzi la voglia di fare un accordo con l’opposizione prima che con la maggioranza. Io non ci credo”.

    Alfano parla e agita le mani scosse da una specie di nevrosi repressa, prende appunti e poi li strappa, si mette i minuzzoli di carta nella tasca della giacca, giochicchia con la penna, la getta, la prende, la rigetta, la riprende, con una monotona pendolarità. E’ serio, forse un filo ingrassato, ogni tanto sorride alle battute di “Bruno”, con il quale la familiarità è persino esibita (quando nella sala entra Augusta Iannini, moglie del creatore di “Porta a Porta”, Alfano la indica a Vespa e le manda un bacio confidenziale), ma subito si gela, osserva il suo pirotecnico avversario ragazzino, il segretario del Pd al di là del tavolo, alla sua sinistra, e chissà se, mentre lo ascolta e lo guarda, mentre ne subisce l’estro teatrale, un po’ lo invidia pure questo trentottenne energico che ha deciso di arrampicarsi o morire. “Non era mai capitato che i due principali leader di partito fossero d’accordo per modificare la legge elettorale”, gli dice, accolto da un silenzio ambiguo, forse sornione, certo un po’ crudele. Ma Alfano sa anche incassare, l’ha imparato ad Arcore. Ride alle battute su Bersani, si irrigidisce a quelle sul Cavaliere, trova conforto negli appunti, cerca la vittoria nelle mille voci della memoria berlusconiana: “Hanno più ragione i cittadini a non fidarsi dello stato che lo stato a non fidarsi dei cittadini”, dice. E dunque offre “la sburocratizzazione”, strappa un applauso sonoro quando parla di articolo 18, quando recupera il modello Marchionne (“la contrattazione dev’essere aziendale, basta coi sindacati”). Ma l’altro, il suo avversario, è un maghetto furbo e gommoso, inafferrabile, la sua è una percussione sintomatica, lo lascia sempre sospeso. Eppure Alfano c’è abituato, ha imparato a muoversi con mosse furtive. E non c’è dubbio che quel ragazzino, irridente scavezzacollo, ora gli ricordi il vecchio Cavaliere imprendibile.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.