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Così Russia, Cina e America si contendono l'Artico

Paolo Valentino

Lo scioglimento dei ghiacci e l'innalzamento delle temperature aprono nuovi scenari commerciali. Le implicazioni geostrategiche di questo cambiamento epocale sono enormi

Roald Amundsen, il celebre esploratore norvegese, ci mise tre anni, dal 1903 al 1906, per navigare attraverso il leggendario Passaggio a nord ovest, lo stretto che collega l’Oceano Atlantico al Pacifico. Ma nell’estate del 2007, per la prima volta la via d’acqua fu libera dalla calotta ghiacciata. Rimane a tutt’oggi complicata da attraversare, senza l’aiuto di un potente rompighiaccio. Ma la strada è segnata. I ghiacciai una volta eterni del Polo nord si stanno sciogliendo a una velocità mai registrata in precedenza. Le temperature registrate nell’Oceano Artico la scorsa estate erano da 1 a 4 gradi centigradi superiori alla media ventennale tra il 2000 e il 2020. Ma il loro rapido aumento, in un’area storicamente dedicata soprattutto alla cooperazione scientifica e alla ricerca, va di pari passo con quello delle tensioni geopolitiche e sta già configurando un’inedita minaccia alla sicurezza globale.

 

Perfino durante la Guerra fredda, anche nei momenti di maggior tensione tra Usa e Urss, l’Artico rimase in qualche modo un’area di interesse condiviso. Pur continuando il Grande gioco strategico, a tratti sfiorando l’incidente che avrebbe potuto essere fatale, le due parti si impegnavano in progetti di collaborazione come il contrasto al degrado ecologico o la protezione ambientale. Dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo dell’Unione sovietica, la cooperazione venne intensificata, portando alla firma di un trattato dell’Artico tra Washington e Mosca. Ma l’invasione russa della Crimea nel 2014 e la guerra di aggressione di Putin contro l’Ucraina hanno segnato la fine di ogni attività in comune, compresa quella nella regione più settentrionale del pianeta. Dal febbraio 2022, il Consiglio Artico, il forum intergovernativo che promuoveva la cooperazione su biodiversità, clima e inquinamento, ha smesso di funzionare: Stati Uniti, Finlandia, Islanda, Danimarca, Canada, Norvegia, Svezia hanno deciso di boicottarne gli incontri convocati dalla Russia, nel quadro del regime di sanzioni contro le azioni illecite di Putin.


Le temperature registrate nell’Oceano Artico la scorsa estate erano da 1 a 4 gradi superiori alla media ventennale tra il 2000 e il 2020


Una nuova frontiera dello scontro fra est e ovest emerge nel Grande nord, l’enorme spazio sopra il Circolo polare artico, dove il riscaldamento climatico sta progressivamente sbrinando la cortina di ghiaccio che ha fin qui separato il confine polare della Russia dalla Nato, aprendo nuove rotte navali. Queste vie d’acqua possono potenzialmente dimezzare il tempo di trasporto di merci e materie prime dall’Europa all’Asia, rispetto a quelle tradizionali che passano dal Canale di Suez o dal Capo di Buona Speranza, oltre a rendere accessibili immense riserve sottomarine di petrolio, gas e metalli preziosi. 

 

Alcune stime prevedono che, se le emissioni di CO2 continuassero ai ritmi attuali, l’Oceano Artico potrebbe essere libero dai ghiacci e interamente navigabile durante l’estate già a partire dal 2040 e per tutto l’anno dal 2050. “In venti o trent’anni, forse anche prima – ha detto al Sunday Times Michael Clarke, ex direttore del Royal United Service Institute – diventerà probabilmente la prima o seconda rotta commerciale più usata e sarà necessario proteggerla così come avviene per tutte le altre rotte”. 


Con gli approdi europei sbarrati dalle sanzioni, Mosca ha bisogno della Northern Sea Route, che Putin definisce “la nostra priorità strategica”


Le implicazioni geostrategiche di questo cambiamento epocale sono enormi: “Dobbiamo prepararci al fatto che la minaccia russa può venire anche dal Grande nord”, ha detto l’ammiraglio olandese Rob Bauer, attuale presidente del Comitato militare della Nato. L’ufficiale si è espresso due settimane dopo gli incidenti del 7-8 ottobre, quando il gasdotto baltico tra Finlandia ed Estonia e due cavi sottomarini di fibra ottica che collegano i due paesi e la Svezia sono stati gravemente danneggiati, in quella che ha tutte le caratteristiche di un’azione di sabotaggio. Al momento dell’incidente due navi, una della cinese New New Shipping e una dei russi di Rosatom, erano nell’area.

 

Cogliendo già da tempo la finestra di opportunità, Russia e Cina stanno infatti rapidamente espandendo la loro presenza militare ed economica nella regione. Con gli approdi europei sbarrati dalle sanzioni occidentali, Mosca ha assolutamente bisogno di rendere agibile la Northern Sea Route, sezione chiave del Passaggio a nord ovest, che Putin definisce “la nostra priorità strategica”, per continuare a portare le sue materie prime nei paesi asiatici che non aderiscono all’embargo, l’India in primis. E’ un fatto che, subito dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina, il governo russo ha annunciato lo stanziamento di 20 miliardi di euro da qui al 2035 per un progetto di sviluppo sulla rotta del Mare del nord. 

 

Ma è da anni in realtà che il Cremlino si rafforza militarmente nell’area. Nel 2014 Mosca ha creato un Comando del nord, che ha reso operativi una cinquantina tra vecchi siti militari dell’èra sovietica e basi navali nuove di zecca sopra il Circolo polare, al punto da contarne attualmente più della Nato. La marina russa sta inoltre sviluppando nuovi sottomarini nucleari per le operazioni artiche, come Arcturus, in grado di spiegare droni e missili ipersonici subacquei. Se lanciati attraverso la breve rotta polare che separa la Russia dal Nord America, i nuovi ordigni richiederebbero una capacità di reazione pressoché istantanea, secondo gli esperti militari.


Negli ultimi dieci anni, il Dragone ha investito circa 90 miliardi in progetti per lo sfruttamento di combustibili fossili e minerali nell’Artico


Il vero vantaggio attuale di Mosca è duplice. Da un lato infatti, come spiega Clarke, le vie d’acqua dell’Artico si stanno aprendo attualmente soprattutto dal lato della Russia, dandole “la possibilità di sfruttarle e impedire ad altri di farlo”. Dall’altro, la Federazione può contare sulla sua celebre flotta di rompighiaccio, la più grande del mondo con oltre 50 unità, mentre altrettante sono previste per il prossimo decennio. Molte sono a propulsione nucleare, armate di missili da crociera e fanno da apripista per le navi commerciali ma anche per quelle da guerra. 

 

Non è da meno la Cina, che, pur non essendo un paese che affaccia sull’Artico, già dal 2018 rivendica un interesse strategico nell’area: “La situazione nell’Artico – si legge in un documento ufficiale di Pechino sulla politica estera – va oltre gli stati artici originali o la sua natura regionale, ma è vitale per gli interessi di stati fuori dalla regione, con implicazioni globali e impatti internazionali”. Concretamente, la Repubblica popolare rivendica diritti di “ricerca scientifica, navigazione, sorvolo, pesca, deposito di cavi sottomarini e tubi per l’energia, esplorazione e sfruttamento delle risorse”. E’ un fatto che Pechino si sia già dotata di due rompighiaccio polari, mentre un terzo, il più grande mai costruito al mondo, sarà pronto nel 2025. Negli ultimi dieci anni, il Dragone ha investito circa 90 miliardi di dollari in progetti congiunti per lo sfruttamento di combustibili fossili e minerali nell’Artico, mentre ha iniziato a cooperare con la Russia per creare una “Via della Seta polare”. Così, in marzo, i due paesi hanno firmato un’intesa sulla creazione di un’organizzazione sino-russa per il traffico sulla Northern Sea Route e un mese dopo l’Fsb, l’intelligence russa responsabile anche del controllo dei confini, e la Guardia costiera cinese hanno concluso un accordo marittimo, che di fatto inserisce Pechino nella sicurezza della regione. Dallo scorso luglio c’è un collegamento di portacontainer regolare tra San Pietroburgo e Shanghai che passa dalla rotta del Mare del nord, mentre la Russia ha fatto le sue prime consegne di petrolio in Asia, addirittura usando petroliere senza chiglia rinforzata, quindi ad altro rischio per la sicurezza ambientale. Occorrono appena dieci giorni per un viaggio sulla via polare tra l’Europa e il Giappone, contro gli oltre venti della rotta via Suez e i più di trenta di quella che circumnaviga l’Africa.

 

La divisione del lavoro è ovvia e rafforza il legame strategico tra il Cremlino e il Dragone: Pechino tiene i cordoni della borsa, Mosca opera i suoi porti dell’Artico. Rosatom, l’agenzia nucleare russa, fornisce i permessi di transito più l’assistenza dei rompighiaccio, Torgmoll e New New Shipping, gruppi di trasporto e logistica cinesi, assicurano i servizi di cabotaggio e commercio. Gli Stati Uniti però non sono rimasti a guardare. Il governo di Washington sta lavorando con quello canadese per rivitalizzare il vecchio Joint Aerospace Defense Command, attivo ai tempi della Guerra fredda. Intanto, lo scorso febbraio gli Usa hanno lanciato Arctic Forge 23, Defense Exercise North e Joint Viking, esercitazioni militari andate avanti per un mese e ospitate sul territorio di Finlandia e Norvegia, cui hanno preso parte oltre 10 mila soldati americani, britannici, tedeschi, olandesi danesi e scandinavi. Il Pentagono le ha definite “un modo di dimostrare la prontezza di mobilitazione di una credibile forza di combattimento in grado di rafforzare il fianco nord della Nato”. L’ingresso della Finlandia e quello ormai prossimo della Svezia nel Patto atlantico, innescati dall’invasione russa dell’Ucraina, faranno della Russia il solo paese dell’Artico al di fuori della Nato.


Uno scrigno di risorse: 90 milioni di barili di petrolio, miliardi e miliardi di metri cubi di gas sottomarino e soprattutto metalli e minerali rari


Ma l’apertura dell’Oceano Artico avrà anche un altro gigantesco effetto collaterale. La regione, infatti è lo scrigno di immense risorse naturali fin qui mai sfruttate: 90 milioni di barili di petrolio, pari al 13 per cento delle riserve mondiali di greggio; miliardi e miliardi di metri cubi di gas sottomarino che rappresentano il 30 per cento delle riserve globali e soprattutto metalli e minerali rari, cruciali per l’industria elettronica, per un valore stimato superiore a mille miliardi di dollari. Questa ricchezza potenziale diventerebbe accessibile e ha già scatenato le ambizioni di Russia e Cina. Ma qui si entra in un terreno molto delicato. Perché lo scioglimento della calotta polare artica, oltre ad aprire le nuove rotte commerciali e rendere accessibili le ricchezze sottomarine, produrrà effetti apocalittici sull’intero pianeta. La scomparsa del permafrost della Groenlandia potrebbe far salire i livelli del mare fino a 6 metri, minacciando l’esistenza di isole e coste a migliaia di chilometri di distanza, mentre il riscaldamento climatico renderà invivibili interi pezzi del medio oriente, dell’Africa e dell’Asia. Ogni vantaggio economico o militare che Russia e Cina ambiscono a lucrare avrebbe un corrispettivo in cataclismi, inondazioni, tsunami, siccità e desertificazione in tutto il mondo. La domanda vien da sé: ne vale la pena? Nel dubbio, è chiaro che ormai quando diremo Artico, non significherà soltanto clima e ambiente, ma anche deterrenza e confronto strategico.

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