Votare o no? I due fronti nella Lega di Capitan Tentenna, che teme il Quirinale

Valerio Valentini

    Roma. La crisi che alle nove del mattino sembra già scontata (“Entro venerdì si rompe”, sentenziano tra sé i leghisti), alle undici torna a essere improbabile. E così quegli stessi leghisti si premurano di correggere le loro affermazioni: “Ti ho detto che cadiamo? No, sembra non si cada più”. In Parlamento si vive insomma in balia dei capricci e delle paure, degli sbalzi d'umore dei leader. E in particolare di uno: Matteo Salvini, questo capitan Tentenna che non sa decidersi (“Non sa bene cosa fare, è pieno di dubbi”, confessa chi riesce a parlarci), e che guarda con immutabile sospetto alle mosse del Quirinale. Non a caso chi gli sta vicino registra il suo stupore, quando nel pomeriggio di ieri si diffonde la notizia dell'incontro tra Luigi Di Maio e Sergio Mattarella. Ed è in questa incertezza che crescono, seppure con confini mutevoli, i due fronti del Carroccio.

    Si finisce insomma col ritrovarsi a contrapporre da un lato Massimo Garavaglia, e dall'altro Massimiliano Romeo. Perché il viceministro dell'Economia, che qualcuno nella Lega vedrebbe bene anche come possibile commissario europeo, lunedì sera viene mandato in modalità kamikaze a Palazzo Chigi, per difendere di fronte a Giuseppe Conte la sospensione per due anni del codice degli appalti. E invece l'indomani, al Senato, il capogruppo Romeo si trova a rinnovare la sua ormai proverbiale intesa con l'omologo grillino Stefano Patuanelli – un'intesa che è sempre più spesso la cintura di sicurezza di una maggioranza traballante, a Palazzo Madama – e a trovare un compromesso che permetta di salvare la faccia a entrambi, e soprattutto a Conte. “E' un mezzo accordo, per ora, ma è sempre meglio di nessun accordo”, chiosa, solcando il Salone Garibaldi, Claudio Durigon, sottosegretario al Lavoro e anche lui iscritto di diritto alla schiera di quanti, nel Carroccio, sembrano preferire un cedimento dei grillini, all'ipotesi di un voto anticipato. Come pure Massimo Bitonci, l'altro uomo del Mef di Salvini, che nel primo pomeriggio, arrivando in Transatlantico e informato della telefonata – “lunga e cordiale”, comme il faut – tra Salvini e Di Maio, se la ride sui “miracoli che è capace di fare la Batteria del Viminale”. “Vedrete che, se tornano a parlarsi e ricuciono dal punto di vista personale, si potrà andare avanti”, spiega, lui che del resto, pur non amando i grillini, dell'inaffidabilità del centrodestra ha già fatto prova sulla sua pelle, quando fu sfiduciato da sindaco di Padova anche dai consiglieri di Forza Italia, e fu costretto a dimettersi.

    Dall'altro lato, però, a consigliare la via della rottura, c'è innanzitutto Giancarlo Giorgetti. Oltre che l'esasperazione per una convivenza ormai impossibile col M5s – la stessa che provano anche Lorenzo Fontana e Nicola Molteni, e che ha provato a lungo Edoardo Rixi – il sottosegretario alla Presidenza ha bene in mente che, più di ogni altro, il vero scoglio da aggirare è quello della prossima, dolorosa, legge di Bilancio. Anche per questo, lunedì, quasi scherzando sull'imminente viaggio di Conte, diceva che bisognava “prepararsi al Vietnam”, alludendo però alla guerriglia parlamentare da alimentare in attesa dell'incidente. Salvo poi prendere atto, però, della rinnovata cautela di Salvini. “Se non accetti di rischiare, rischi di farti rosolare”, dicevano ieri sera alcuni uomini di governo della Lega che condividono le posizioni di Giorgetti e che interpretavano con aria assai inquieta i resoconti sul colloquio tra Mattarella e Di Maio. E un'immagine, di nuovo, è tornata a tormentare gli uomini del Carroccio: quella di Matteo Renzi. Perché anche lui, all'indomani del referendum del 4 dicembre, avrebbe voluto passare all'incasso capitalizzando quel 40 per cento di Sì. “E invece anche lui, per non indisporre il Colle, si è fatto cucinare”.

    Valerio Valentini