Scintilla di governo

Valerio Valentini

    P arla e non emette suono, cammina ma non si muove. Sta lì a prolungare oltre l'inverosimile un discorso che durerà più di mezz'ora – e che per mezz'ora continuerà a ruotare intorno al centro di gravità dell'ormai famigerata lettera da spedire alla Commissione europea, senza mai davvero arrivarci – nel generale disinteresse dell'Aula. Poi finalmente Giuseppe Conte esce. “Il vertice è andato bene, ci siamo un attimo confrontati anche sulla strategia per l'infrazione, che vogliamo tutti evitare”, dice infine, rivolto ai giornalisti. Un attimo, in effetti: il vertice mattutino a Palazzo Chigi – iniziato intorno alle otto e quarantacinque, terminato quaranta minuti più tardi – non è durato molto di più, anche perché è parso chiaro a tutti i presenti – Matteo Salvini, Luigi Di Maio e Giovanni Tria, oltre al premier – che c'era poco da discutere. La strategia d'altronde, al di là delle prese di posizioni puramente strumentali, è già segnata: e anche per questo Matteo Salvini e Luigi Di Maio evitano di mostrare la loro faccia accanto a quella di Conte, già sapendo che quella è la faccia di chi dovrà cedere di fronte all'Europa, provando magari solo a rendere dignitosa la capitolazione.

    La soluzione a cui il governo lavora, al momento, ricalca infatti quella che sia Tria, sia Giancarlo Giorgetti, vanno predicando da settimane: e cioè che in fondo la correzione che Bruxelles chiede sui conti di quest'anno non è poi così proibitiva. Bisognerebbe correggere al ribasso di circa tre decimali il deficit del 2019, lievitato a causa della mancata crescita: tornare insomma a quel 2 per cento sul pil che era fissato, grosso modo, nella legge di Bilancio approvata dalla stessa Commissione, non senza riserve, lo scorso dicembre. Servirebbero più di cinque miliardi, che però – è l'auspicio degli sherpa di palazzo Chigi – trattando, potrebbero diventare “quattro, magari quattro e mezzo”. E andrebbero cercati in parte nei fondi congelati nei vari ministeri: due miliardi di “dotazioni accantonate e rese indisponibili” prima fino a luglio, poi per tutto l'anno, nell'attesa di un “monitoraggio sugli andamenti tendenziali dei conti pubblici”. Ora è evidente che quegli accantonamenti si tradurranno in “tagli”: prove tecniche di austerity, da cui si proveranno a salvare almeno i 300 milioni in dote al Mit di Toninelli e destinati al trasporto pubblico locale.

    Poi, si proverà a far valere le minori spese per reddito di cittadinanza e quota cento, che si sono rivelate meno esose del previsto. E infine, verrà data una garanzia – che però, nero su bianco, potrà arrivare solo con l'assestamento di bilancio di fine giugno – sulle maggiori entrate previste, soprattutto dalla pace fiscale.

    Il tutto, ovviamente, confidando nella benevolenza della Commissione: che dovrebbe prendere per buoni impegni ancora fumosi, e che soprattutto dovrebbe chiudere gli occhi su altre entrate già previste in legge di Bilancio e ancora lontane dall'essere certe. Una su tutte: i 18 miliardi che dovrebbero arrivare da privatizzazioni ancora non viste, e che dovrebbero però fare scendere il nostro debito, in un sol colpo, dal 131,7 per cento del 2018 al 130,7 per cento del 2019. La speranza che nutrono Lega e M5s, insomma, è che alla fine anche l'Europa possa non avere tutto l'interesse a essere rigorosa, per motivi più strettamente politici. “Ci sono nomine importanti da discutere, c'è soprattutto – spiega Riccardo Molinari, mentre si accende un sigaro nel cortile di Montecitorio – la riforma del Fondo salva stati, che a noi preoccupa molto perché prevede un meccanismo molto più invasivo di quello attuale. Ecco, per noi la discussione sulla procedura d'infrazione si deve calare in un contesto più ampio”, dice. E forse anche per questo, pochi minuti prima, il capogruppo del Carroccio è intervenuto in Aula per pronunciare un discorso di pieno sostegno a Conte, che pure è apparso tra i banchi del governo accompagnato dal solo ministro degli Esteri Enzo Moavero. “Un discorso che sembra blindare la maggioranza per l'eternità”, chiosa, in Transatlantico, l'ex ministro Maurizio Lupi. “Ho ricordato che questa maggioranza gode ancora di un consenso straordinario”, chiarisce Molinari. “E che è in forza di quel consenso che Conte andrà a trattare”.

    E che poi la trattativa possa finire male, in fondo nella Lega non lo si esclude del tutto. “Se proprio vogliono la guerra, in Europa, ne prenderemo atto”, spiegava il sottosegretario allo Sviluppo Dario Galli, leghista di lungo corso. E prenderne atto, per Salvini, significherebbe forse assecondare le spinte di chi, anche tra i suoi ministri, continua a chiedergli di porre fine all'agonia grilloleghista e ottenere elezioni anticipate, da tenersi a fine settembre. Ipotesi che, al momento, il capo del carroccio continua a reputare azzardata: ma se l'alternativa sarebbe inchinarsi ai burocrati di Bruxelles, allora il “capitano” sarebbe obbligato a mostrare i suoi muscoli.

    Valerio Valentini