I paria della Lega
Roma. La figuraccia è stata così plateale che Giancarlo Giorgetti ne ha subito tratto le dovute conseguenze, e a chi glielo chiedeva, ieri mattina, ha risposto, scherzando chissà fino a che punto, che “non ci penso proprio ad andare a fare il commissario europeo”. E anche per questo, a maggior ragione dopo la mancata elezione di Mara Bizzotto come vicepresidente del Parlamento europeo, il sottosegretario alla Presidenza ha proposto il nome dell'ex ministro dell'Economia Domenico Siniscalco, persona stimata e da cui è stimato, profilo ideale per andare a rivestire un ruolo economico di peso a Bruxelles. Sennonché poi, però, lasciato il palazzo della Marina dov'era intervenuto per la presentazione del libro di Germano Dottori, convocato da Matteo Salvini al Viminale, s'è trovato di nuovo messo alle strette.
Perché il capo della Lega non ci sta a “mandare in Europa un uomo che non sia del partito”, la vedrebbe come un'ammissione d'impotenza. Solo che l'unico nome spendibile, per un incarico di commissario, è proprio quello di Giorgetti: il quale verosimilmente finirebbe, però, col dover giocare il ruolo ingrato di agnello sacrificale, dovendo affrontare il “plotone d'esecuzione” del Parlamento europeo. Quello che sarà chiamato a vagliare le candidature dei vari stati membri per gli incarichi alla Commissione, ma che ha già dimostrato, nel suo complesso, quale sia la considerazione che ha nei riguardi del Carroccio. E' stato così che il rischio di restare impallinato nell'audizione preliminare – come già accadde a Rocco Buttiglione, nel 2004 – alla mente di Giorgetti deve essersi materializzato come una possibilità assai concreta intorno alle nove di sera di mercoledì, quando l'irrilevanza della Lega a Bruxelles si è mostrata in tutta la sua evidenza.
E' stato allora, infatti, che è giunta a Roma la notizia della bocciatura della candidata salviniana alla vicepresidenza del Parlamento europeo, Mara Bizzotto. Il tutto reso ancora più beffardo dalla contestuale elezione del grillino Fabio Massimo Castaldo, riconfermato nel ruolo che già occupava nella scorsa legislatura nonostante questa volta il M5s figuri addirittura tra i non iscritti. “E' la prova che a Bruxelles comandano sempre i soliti, le lobby di sempre”, ha sbuffato Salvini, ma in maniera abbastanza forte perché il suo sfogo arrivasse ai retroscenisti delle agenzie di stampa. Ma quanto la bocciatura abbia bruciato lo dimostrano in verità le contestuali occhiate di sconforto che alcuni dei suoi colleghi di governo leghisti, a Palazzo Chigi insieme al capo per l'ennesimo inconcludente vertice sulle autonomie, si scambiavano, arrivando perfino a prefigurare estreme ripercussioni: “Possiamo far cadere il governo, su una cosa di queste, perché si tratta di un inciucio tra Pd e M5s”.
Non è andata proprio così, ma quasi. E' accaduto infatti che, di fronte alla candidatura di David Sassoli, mentre il gruppo leghista di Identità e Democrazia annunciava subito il suo voto contrario, i grillini se la cavavano con un democristiano invito alla “libertà di coscienza”, dietro cui si mascherava un inconfessabile voto a favore. Poche ore dopo, i voti dei socialisti si sarebbero rivelati indispensabili per l'apoteosi di Castaldo. La Lega, nel frattempo, s'imbatteva nel sentiero peggiore possibile. Sì, perché l'idea di chiamarsi fuori sin dall'inizio, di assumere immediatamente posizioni di opposizione oltranzista, era stata valutata. E invece stavolta, per la prima volta nella storia europea del Carroccio, si era deciso di essere della partita (“Per questo – spiega un eurodeputato – ci è stato ordinato di rispettare l'Inno alla Gioia, a differenza dei britannici del Brexit Party”) quando a Salvini era arrivata la garanzia che le trattative potevano portare frutti. A dargliela era stato Marco Zanni – già grillino e impenitente antieuro idolatrato da Claudio Borghi, promosso a responsabile Esteri della Lega e poi a guida del gruppo IeD – che per l'intera giornata aveva brigato per strappare ai colleghi socialisti e soprattutto ai popolari un “accordo trasversale” che avrebbe dovuto portare all'elezione della Bizzotto. “Ce la possiamo fare”, ripeteva ai suoi Zanni. E invece, al momento della verità, il Ppe ha preferito semmai dirottare alcuni dei suoi voti sui candidati dei Verdi e del Gue, pur di non darli a un esponente leghista. “E' evidente che c'era una pregiudiziale contro di noi”, sbotta Toni Da Re, eurodeputato veneto e amico di lunga data della Bizzotto. “Ci trattano da appestati”. Solo che Zanni – a capo di una pattuglia leghista composta da molti neo arruolati saltati sul Carroccio del vincitore con impeccabile tempismo – se n'è accorto tardi, e a quel punto, con una protesta fin troppo pretestuosa su un cavillo procedurale, ha chiesto a tutto il suo gruppo di abbandonare l'Aula. “Cosa dovevamo fare? Restare lì a farci umiliare?”, si domanda Da Re. E così, dei tre partiti italiani più votati il 26 maggio, Pd e M5s – cioè gli sconfitti – hanno ottenuto una vittoria a Bruxelles, mentre la Lega, che quelle elezioni le ha stravinte, è stata relegata alla marginalità. Un segnale politico fin troppo esplicito, che va ben oltre il valore della poltrona perduta di vicepresidente. E' il segno che quel “cordone di sicurezza” invocato proprio da Sassoli qualche giorno fa si è attivato, e che la Lega – insieme alla Le Pen e ai tedeschi di AfD – viene ritenuta impresentabile.
“Mi auguro che almeno sulle presidenze di commissione ci sia un ravvedimento”, dice la leghista Isabella Tovaglieri, con tono più rassegnato che speranzoso. Al gruppo della Lega ne spetterebbero due: quella alla Concorrenza e quella all'Agricoltura. Ma a questo punto nessuno le considera scontate, anzi. “L'andazzo è chiaro, al momento – dice Da Re – anche la prospettiva di eleggere un commissario nostro, della Lega, non mi pare che ci sia”. Deve pensarlo anche Giorgetti, in fondo.
Valerio Valentini
Il Foglio sportivo - in corpore sano