Il giorno dei tranelli incrociati tra i 5s e il Pd (e dentro il Pd). Fidarsi?
Salvini sta alla finestra
Roma. Alla fine Sergio Mattarella è costretto a fare quello che può col poco che ha, e cioè concedere, seppure di malavoglia, un po' di tempo. “Servono decisioni chiare e sollecite”, scandisce il capo dello stato alle otto di sera, dopo due ore di riflessioni seguite all'ultimo colloquio avuto. Quello che avrebbe dovuto fare chiarezza, sciogliere i dubbi e le ambiguità: e che invece ha confermato tutte le incertezze e i timori di Luigi Di Maio. Per questo, col tono non proprio conciliante di chi già un anno fa ne ha viste di ogni colore, e non vuole ripercorrere quel calvario di follia, Mattarella ha rimandato tutto a martedì prossimo, quando svolgerà un nuovo giro di consultazioni. “Il degradante quadro della situazione – spiega Riccardo Molinari, uno dei due scudieri che ha accompagnato Matteo Salvini al Colle – vede un Di Maio che vorrebbe aprire al Pd, ma ha paura di farlo perché la base degli elettori e alcuni dei suoi fedelissimi potrebbero rivoltarglisi contro. E questa paura, magari, potrebbe spingerli a tornare con noi, come una sorta di male minore. Per questo Matteo non ha chiuso del tutto al ritorno di un governo gialloverde”. Certo, c'è la base. Ma ancora di più di un'eventuale bocciatura degli attivisti ad alimentare per tutta la giornata le paranoie dei grillini ci pensa l'atteggiamento ondivago, e un po' schizofrenico, del Pd, il cui segretario si ritrova a dover condurre malgré soi una trattativa che invece vorrebbe con ogni probabilità fare abortire. E lo si capisce quando, a ora di pranzo, l'entourage di Nicola Zingaretti veicola ai giornali online un retroscena che tradisce l'intenzione di complicare tutto, forse irreversibilmente. Perché il Pd, parrebbe, non chiede più un'intesa sui fumosi “cinque punti” licenziati ieri dalla direzione del Nazareno, ma pone tre aut aut quasi irricevibili: lo stop al taglio dei parlamentari, la soppressione dei decreti sicurezza voluti da Salvini e l'elaborazione condivisa della prossima legge di Bilancio. E' un segnale esplicito, e tanto basta a mandare in fibrillazione il gruppo dirigente del M5s, riunito in Sala Tatarella a Montecitorio, al punto che Stefano Patuanelli, il capogruppo al Senato del M5s che in mattinata spiegava ai parlamentari che lo interpellavano che “da uno a dieci siamo a sei”, per chiudere col Pd, improvvisamente corregge al ribasso il suo pronostico: “Due”. “Trappole per topi, trappole per topi”, ripete Enrico Borghi, nel primo pomeriggio, entrando alla buvette e predicando cautela di fronte a un manipolo di deputati del M5s che già facevano i calcoli per il futuro: “Io ero secondo nel listino, in Lombardia, di sicuro resterei fuori. E tu?”. “Io eletto a Messina nell'uninominale, forse ce la faccio”. E allora tocca a un renziano come Borghi, che per oltre un anno è stato un implacabile fustigatore dell'incompetenza gialloverde, provare a infondere calma ai futuri possibili alleati. “Guardate che Zingaretti sa bene che se ora il governo no si fa, dopo che il partito gli ha dato un mandato chiaro, il primo a doverne rispondere sarebbe lui”. E insieme a Borghi arriva perfino Bruno Tabacci a spiegare ai grillini Serritella e Rizzone che “se si va a votare, ha vinto Salvini e basta, quello non fa prigionieri”. E poi, ancora, il bolognese Gianluca Benamati, area Franceschini: anche lui a catechizzare i deputati del M5s: “Lasciate perdere i retroscena. Quello che fa fede sono gli atti ufficiali: e cioè il documento approvato dalla direzione del Pd di ieri, e le dichiarazioni di Zingaretti al Quirinale di oggi”. E insomma appare fin troppo chiaro come la trattativa per il nuovo governo passi attraverso un impensabile gioco di sponda tra le correnti meno vicine, in questa fase, alla segreteria del Nazareno, e gli esponenti del M5s: una specie di accerchiamento per fermare l'operazione di sabotaggio messa in atto da Zingaretti (un'operazione che la vicesegretaria Paola De Micheli preannunciava già giorni fa ad alcuni leghisti emiliani). E non accade, certo, solo a livello di truppe parlamentari.
E allora ecco i continui messaggi che il cerchio magico di Di Maio si scambia per tutto il pomeriggio con i maggiorenti dell'area renziana e franceschiniana, in cerca di un segnale di apertura che arriverà, poi, con una nota scritta da Graziano Delrio, capogruppo alla Camera e pontiere della trattativa, per ridimensionare la portata delle minacce filtrate attraverso veline online.
E' lì che Di Maio ritrova il coraggio, o almeno quel poco che gli serve per andare da Mattarella ed esporgli i “dieci punti” del suo programma: quelli cioè, elaborati negli ultimi due giorni insieme ai capigruppo e i presidenti di commissione, messi giù in forma che possano valere alla bisogna per ogni evenienza, sia come canovaccio per un'intesa col Pd, sia per tornare tra le braccia di Salvini, e sia come manifesto elettorale. Un'ambiguità che il capo dello stato non gradirà. Ma tant'è: per aprire al fu “partito di Bibbiano”, Di Maio ha bisogno di un mandato che lo protegga dalle accuse di abiura. E lo cerca in quei gruppi parlamentari che, vuoi per convinzione e vuoi per paura, sono in stragrande maggioranza a favore dell'intesa col Pd. E allora, terminato il colloquio al Colle, va a presiedere un'assemblea congiunta che darà mandato ai due capigruppo di aprire le trattative col Pd. Che, tuttavia, appaiono per nulla scontate anche per via della riluttanza di Zingaretti. E il paradosso sta nel fatto che, guarda caso, a tarda sera i contatti tra i vertici della Lega e gli esponenti della segreteria del Pd s'intensificano. “Obiettivi comuni”, dicono nel Carroccio, alludendo al voto anticipato. Non fosse che, però, anche agli occhi dei salviniani, il leader del partito appare assai isolato. “Il problema – scherza a ora di cena un ministro leghista – è che gli zingarettiani non esistono. A parte Zingaretti”.
Valerio Valentini
Il Foglio sportivo - in corpore sano