Dietro l'enciclica ecologica del Papa c'è Jeff Sachs
Fra gli economisti italiani più attenti alle questioni climatiche e alla sostenibilità corre voce che nella prossima enciclica di Papa Francesco, che ruoterà attorno al tema dell’ecologia, si noterà distintamente il tocco dell’economista americano Jeffrey Sachs.
New York. Fra gli economisti italiani più attenti alle questioni climatiche e alla sostenibilità corre voce che nella prossima enciclica di Papa Francesco, che ruoterà attorno al tema dell’ecologia, si noterà distintamente il tocco dell’economista americano Jeffrey Sachs, direttore dell’Earth Institute alla Columbia University. Alcune fonti ben connesse negli ambienti internazionali confermano al Foglio il ruolo di Sachs nella concezione del testo. L’interessato non ha risposto alla richiesta del Foglio di confermare la sua collaborazione alla stesura dell’enciclica, che dovrebbe vedere la luce in estate o al più tardi in autunno, ma la notizia appare tutt’altro che inverosimile: lo scorso anno Sachs ha partecipato a un convegno sullo sviluppo sostenibile organizzato dalla Pontifica accademia delle scienze, mentre l’anno precedente è stata l’Accademia internazionale per lo sviluppo economico e sociale a invitarlo in Vaticano a un incontro su “Povertà, beni pubblici e sviluppo sostenibile”, organizzato in collaborazione con l’associazione Greenaccord. Sachs, nato in una famiglia ebrea di Detroit, non si definisce religioso, ma sostiene che “la dottrina sociale della chiesa offre una cruciale via verso un’etica globale dello sviluppo sostenibile”. Ha accolto con enorme favore le critiche alla trickle-down economics esposte dal Papa nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium. Sulla rivista dei gesuiti americani, America, si è prodotto in una lode del “messaggio di speranza e giustizia sociale” di Francesco: “Siamo di fronte a una crisi morale più che a una crisi finanziaria o economica. E perciò dobbiamo essere grati a Papa Francesco. Lui ci ha amorevolmente ricordato che le nostre più alte aspirazioni sono alla nostra portata”. I rapporti dell’economista innamorato della “cornice etica” offerta dalla dottrina sociale della chiesa con il Vaticano non sono iniziati con Francesco. Nel 1991 ha prestato i suoi consigli a Giovanni Paolo II per la stesura della Centesimus Annus, ma allora non aveva ancora messo a fuoco la caratura universale delle sue ambizioni, era solo un brillante economista che aveva salvato l’economia della Polonia in una notte somministrando una dose della sua “shock therapy”. Il Papa in quell’enciclica sosteneva, fra le altre cose, che sulle cause della povertà Marx aveva torto: i poveri non sono poveri perché sono sfruttati dai ricchi, ma principalmente perché sono esclusi dal ciclo della produttività. Aveva meno di quarant’anni quando il Boston Globe lo ha definito “il più grande ingegnere economico dopo Keynes” e il New York Times lo ha nominato “probabilmente il più importante economista del mondo”. Ora si occupa della “più grande e complessa sfida che l’umanità abbia mai affrontato”, lo sviluppo sostenibile, al quale ha dedicato enormi quantità di energie e ha messo a fuoco in un libro in uscita il mese prossimo: “The Age of Sustainable Development”, con prefazione del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon.
Il concetto di sviluppo sostenibile, spiega Sachs, “richiede un approccio unitario ai cambiamenti della società invece di una semplice ricerca della crescita economica. Questo approccio combina lo sviluppo economico, l’inclusione sociale, la sostenibilità ambientale e la buona governance”. Secondo Sachs, quando si tratta di cambiamenti climatici, di povertà, di diseguaglianze economiche, di giustizia sociale e di altre minacce strutturali a uno sviluppo dal volto umano, non esistono problemi singoli ma una rete interconnessa di problematici rapporti di causalità che richiede uno sguardo totale per essere compresa e un attacco simultaneo su più fronti per essere aggredita efficacemente. Non si può parlare di clima senza parlare di produzione e consumo, non si può parlare di crescita senza parlare di inclusività e attenzione agli ultimi. Tutto c’entra con tutto.
Alla Radio vaticana ha detto che i cambiamenti climatici sono collegati alle crisi che tormentano diverse parti del mondo e ha parlato della necessità di “riorientare il sistema economico affinché non vengano provocati ulteriori danni al pianeta”. Per eliminare la povertà entro il 2030, obiettivo che l’economista ha dichiarato nel 2005, con qualche aggiustamento lungo la via, “bisogna costruire società socialmente inclusive, investire nell’uguaglianza di genere, garantire l’accesso ai servizi educativi e sanitari, eseguire una transizione verso economie a basse emissioni di CO2, realizzare un’agricoltura sostenibile”. Sachs è alla ricerca di un “framework”, di una solida impalcatura etica sulla quale costruire il suo piano di lavoro per condurre l’umanità fuori dal tunnel di sofferenze autoinflitte in cui s’è cacciata, e da qualche anno a questa parte s’è convinto che la dottrina sociale della chiesa faccia al suo caso. Non è impossibile immaginare un’assonanza fra lo sviluppo sostenibile di Sachs e il concetto di ecologia umana, pietra angolare della prossima enciclica papale, secondo quanto suggerito dalla Santa Sede.
Ma chi è Jeffrey Sachs? Qual è la sua concezione dell’uomo, la sua visione del mondo? Difficile catturare in uno sguardo d’insieme tutti i lati di un poliedro umano così complesso. Di certo è molto più di un semplice economista. Oltre a insegnare alla Columbia, dove dirige l’Earth Institute, Sachs è consigliere del segretario generale dell’Onu per il Millennium Development Goals, il piano che il Palazzo di vetro ha stilato nel 2000 per implementare otto obiettivi fondamentali: eliminare la povertà, garantire l’accesso universale all’educazione primaria, promuovere l’uguaglianza di genere, ridurre la mortalità infantile, migliorare la salute materna, combattere l’Aids e altre malattie, garantire la sostenibilità ambientale e forgiare un’alleanza globale per lo sviluppo. Dal 2002 al 2006, su richiesta di Kofi Annan, ha diretto il Millennium Project, progetto per implementare i principi fissati dall’Onu con l’obiettivo di migliorare sostanzialmente la “condizione umana” entro il 2015. Il Millennium Project prevede di applicare nei paesi in via di sviluppo gli standard della salute previsti dall’Onu, inclusa la cosiddetta “salute sessuale e riproduttiva”, eufemismo per indicare la distribuzione massiccia di contraccettivi per controllare la crescita della popolazione. Del resto, Sachs da anni suona il campanello d’allarme della sovrappopolazione e dice che la povertà si combatte innanzitutto controllando le nascite. Benedetto XVI metteva in guardia dai potenziali rischi di questa posizione: “Lo sterminio di milioni di bambini non nati, in nome della lotta alla povertà, costituisce in realtà l’eliminazione dei più poveri tra gli esseri umani”.
Diffondendo questo verbo, il professore si è guadagnato la posizione di superconsulente onusiano, e non c’è agenzia internazionale, associazione per lo sviluppo sostenibile, partnership sopranazionale per lo sradicamento della povertà o panel per la lotta al global warming che non faccia riferimento alle tesi dell’economista. La lista di stati, enti, società e corpi intermedi a cui ha prestato consulenza è lunghissima, come quella dei board di commendevoli organi per l’avanzamento dello sviluppo umano in cui siede. Dapprima si occupava di offrire ai paesi dell’ex Unione sovietica ricette radicali per la transizione dal dirigismo statalista all’economia di mercato, e l’esempio più luminoso – almeno così appariva allora – è quello della Polonia. E’ stato lui a fornire a Solidarnosc un piano economico che avrebbe “causato danni nel breve termine e certamente sofferenze per alcuni nella società”, ma l’alternativa, ovvero un passaggio graduale al mercato, sarebbe stato “un disastro totale”, come ha scritto nel memorandum per il governo polacco. Lo storico Maciej Kozlowski ha scritto: “La terapia d’urto polacca è stata descritta come un tuffo da una torre senza sapere se nella piscina sottostante c’era l’acqua. Sachs era la persona che ci garantiva che nella piscina l’acqua effettivamente c’era”. Discute meno volentieri del tentativo fallito di ripetere l’impresa in Russia: se la terapia non ha funzionato, dice lui, è per colpa dell’Amministrazione di Bush senior, che non ha voluto mettere in atto compiutamente il modello teorico dell’economista. A quel punto però Sachs aveva già esportato la terapia d’urto dall’Europa dell’est ad altri paesi in via di sviluppo in tutto il mondo, che improvvisamente volevano le consulenze del professore che sapeva spiegare il senso di teorie macroeconomiche sofisticate anche a chi non aveva particolare dimestichezza con i meccanismi dell’economia. Il viaggio in Zambia nel 1995 è un passaggio cruciale, la soglia che divide la vita di Sachs in un prima e in un dopo. “E’ stato il primo posto in cui ho visto davvero l’Aids, e il primo posto in cui ho visto davvero la malaria, ed è stato il primo posto dove ho cominciato a domandarmi ‘cosa diavolo sta succedendo?’, non avevo idea che stavamo lasciando morire milioni di persone ogni anno”. Il contatto con la povertà, con l’indigenza su larga scala, con la malnutrizione e la sofferenza ha scosso la sua coscienza, generando quella che talvolta ha chiamato una “conversione spirituale”. In quel momento è iniziata la sua crociata per combattere, anzi per sradicare la povertà. In quel momento uno dei più giovani professori ordinari mai nominati ad Harvard e membro del trio delle giovani superstar dell’economia globale – assieme a Larry Summers e Paul Krugman – ha deciso di occuparsi del bene dell’umanità. Una mente tanto brillante non poteva accontentarsi di tamponare il problema della povertà, di mettere un argine, ma ambiva a trovare una soluzione totale e definitiva a quello che considera un problema “tecnico”, il quale dunque richiede soluzioni tecniche.
Se la ricetta per il risanamento economico che vale per la Polonia non vale automaticamente per la Tanzania – questo Sachs lo ha capito immediatamente – è perché l’origine del problema è diverso: il primo è una disfunzione del sistema economico, il secondo ha a che fare con cause naturali, è da cercare nella geografia e nella distribuzione delle risorse più che nelle pieghe della politica economica. Sono le premesse del determinismo ambientalista, la scuola di pensiero a cui aderiscono anche Paul Krugman e Jared Diamond, e lo svantaggio ambientale di certe popolazioni, su tutte quelle africane, ha generato una “poverty trap”, un ciclo di povertà che si autoalimenta e dal quale è impossibile districarsi senza un intervento esterno. La condizione di sviluppo in cui gli uomini si trovano è dettata innanzitutto dalle condizioni ambientali in cui la civiltà è cresciuta. Una delle massime di Sachs suona così: “L’essenza della crisi dell’Africa è fondamentalmente la sua estrema povertà”. Come risolvere questo problema tecnico-ambientale? Una riforma del sistema economico è inadeguata alla natura del problema, quello che serve è uno scatto di coscienza e di portafogli dell’occidente industrializzato, che deve contribuire a risolvere il problema con aiuti economici. Con un piano di sviluppo e 200 miliardi di dollari donati dal nord al sud del mondo, dice Sachs, l’umanità uscirà definitivamente dalla “poverty trap”. La ricetta per salvare la Tanzania è molto diversa da quella per salvare la Polonia, ma il comune denominatore è quello che Sachs chiama “big push”, l’idea della terapia d’urto, opposta alle soluzioni graduali che lentamente soffocano ogni tentativo di sviluppo. Sachs vuole tutto subito.
Il libro “The End of Poverty”, uscito nel 2005, lo ha incoronato nume tutelare di tutti gli attivisti contro la povertà e la fame nel mondo. Sachs ha contribuito a diffondere la campagna per cancellare il debito dei paesi del terzo mondo, Bono Vox lo definisce un “maestro”, con Angelina Jolie ha fatto uno show a sfondo umanitario per Mtv; che lo sappia oppure no, la pattuglia dei grandi filantropi mondiali, da Bill Gates a George Soros, è ideologicamente indebitata con Sachs, l’economista-attivista che ha dato a tutte le celebrity che s’imbarcano in progetti umanitari una teoria economica che s’attaglia alla loro buona coscienza. Combinando la preparazione tecnica e le enormi capacità comunicative, Sachs è diventato la pop star globale dello sviluppo sostenibile, sacerdote di un culto planetario che abbraccia l’umanesimo onusiano e le teorie orientali sull’armonia universale. La premessa implicita nel ragionamento di Sachs, densa di rilievi antropologici, è che la fine della povertà è possibile, anzi è facilmente raggiungibile. Serve uno sforzo della volontà di chi dispone delle risorse e un piano ben congegnato dagli ingegneri dello sviluppo sostenibile. E il piano ben congegnato c’è. “La fine della povertà è a portata di mano, ma soltanto se cogliamo l’opportunità che ci si para innanzi”, ha scritto. L’obiettivo di uscire dalla poverty trap “è più abbordabile di quanto sembra” e una volta raggiunto, l’uomo potrà realizzare su questa terra quello che i grandi teorici dell’illuminismo avevano soltanto osato sognare. Un mondo di pace, prosperità e armonia: “Alcuni dei suoi frutti più dolci sono a portata di mano”.
Nella prospettiva di Sachs la natura umana è da un lato luminosa e potente, dall’altro oscura e fragile. L’uomo è in grado di risolvere da sé i problemi che lo affliggono, sostiene, e tuttavia lascia centinaia di milioni di fratelli nella povertà, non affronta a muso duro il riscaldamento globale, continua a emettere i gas che uccideranno il pianeta. E’ duque per difetto della volontà, per una colpa morale e non per mancanza strutturale, che uomini ricchi e tendenzialmente bianchi lasciano nella fame altri loro simili. Il fatto che la soluzione ai problemi dell’umanità sia a portata di mano rende, agli occhi di Sachs, ancora più gravi le colpe di chi si gira dall’altra parte. Un paio di anni fa, guardando sconsolato le calamità naturali che si stavano abbattendo in vari punti del pianeta, ha affidato a Twitter una sobria esternazione: “I bugiardi del clima come Rupert Murdoch e i fratelli Koch hanno ancora più sangue sulle loro mani ora che i disastri climatici mietono altre vittime”.
[**Video_box_2**]Sachs è stato oggetto di molte critiche nel corso degli anni. Un paio d’anni fa la rivista Nature ha criticato duramente la metodologia scientifica e la lettura dei risultati del progetto Millennium Villages, il tentativo di applicare il format teorico dell’Onu a quattordici villaggi africani. Una volta trovata la formula giusta, Sachs avrebbe potuto esportare il modello della lotta alla povertà a tutti i villaggi poveri del mondo. Il suo avversario più fiero è probabilmente l’economista della New York University William Easterly, autore de “Il fardello dell’uomo bianco”. Secondo Easterly le iniezioni umanitarie da parte delle economie sviluppate non risolvono il problema della povertà e anzi creano una cultura della dipendenza che alimenta il ciclo della povertà; soprattutto, Easterly rimprovera a Sachs di avere trasformato un problema umano, pieno di variabili imprevedibili, di scelte libere e non sempre razionali, in un modello teorico perfettamente funzionante in termini matematici e perfettamente applicabile con gli opportuni metodi tecnologici. Sachs, insomma, è un tecnocrate che non s’accontenta di raddrizzare un sistema economico storto ma punta direttamente al legno storto dell’umanità. Nel tempo Sachs ha sapientemente incastonato la povertà nel grande schema dello sviluppo sostenibile, dove cambiamenti climatici e ingiustizia sociale sono fattori separati di un medesimo problema.
La sua figura negli anni si è caricata di un tale fascino che Nina Munk, giornalista di Vanity Fair, ha accarezzato l’idea di abbandonare il giornalismo per buttarsi nello sviluppo sostenibile quando nel 2006 le hanno commissionato un ritratto dell’economista. A forza di viaggiare con Sachs, di sentire risposte incerte alle sue domande, di sentirlo esordire ai convegni con un falso dilemma ricattatorio (“volete lasciare morire milioni di persone o volete che vivano?”) di vedere i villaggi africani da cui sarebbe partita la rivoluzione umanitaria, le sono venuti parecchi dubbi. Il suo “The Idealist: Jeffrey Sachs and the Quest to End Poverty”, uscito nel 2013, è il racconto dei limiti della visione dell’economista illuminato. Gli abitanti dei villaggi africani non si comportano come Sachs aveva previsto, i somali continuano a considerare i cammelli come il simbolo della ricchezza, evento irrazionale che Sachs voleva combattere, quelli che ricevono le reti per proteggere i letti dalle zanzare, dunque dalla malaria, talvolta li usano per proteggere gli animali, a volte per pescare, a volte non li usano affatto, per fatalismo o superstizione, per semplice noncuranza, o forse perché non trovano ragioni sufficienti per aggrapparsi alla vita. Munk documenta il crollo dell’esperimento sachsiano, schiacciato dalla premessa troppo ambiziosa di poter prevedere e regolare meccanismi umani con un sottile sistema di ingegneria economica. Quando Easterly ha letto ne ha scritto una recensione trionfante: “Sachs merita riconoscimento. E’ stato ed è un dotatissimo e prolifico avvocato della compassione per quelli che ancora non godono dei progressi fatti nello sviluppo. Ma la sua idea che gli aiuti economici possono portarci rapidamente alla fine della povertà è sbagliata, ed è tempo di passare oltre”.
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