E' la Russia il terreno d'incontro tra Donald Trump e Papa Francesco
La nuova Ostpolitik vaticana (diversa da quella di Casaroli) guarda a Mosca e i punti di contatto tra la Santa Sede e Washington sono molti. Nonostante i muri e il caos negli aeroporti
Roma. Ha scritto il vaticanista americano John Allen che se è facile individuare i terreni di possibile scontro tra Donald Trump e Papa Francesco – dalla continuazione della politica sull’innalzamento di muri lungo i confini meridionali degli Stati Uniti alle recenti misure riguardanti l’immigrazione – un punto invece su cui potranno incontrarsi è rappresentato dalla “loro politica riguardo la Russia”. Politica che, per inciso, non trova le rispettive basi troppo entusiaste, con il presidente americano accusato di essere fin troppo accomodante con il Cremlino e il Pontefice che da variegati settori ecclesiastici è considerato il propiziatore di un “eccessivo ecumenismo” (Allen parla di “ecumenical correctness”).
Eppure, ben prima dell’arrivo di The Donald alla Casa Bianca con le conseguenti polemiche su dossieraggi, infiltrazioni e hackeraggi, era stato il Vaticano a sdoganare Vladimir Putin, riconoscendogli un ruolo internazionale positivo che superava ogni resistenza (tattica o convinta) occidentale, fino al punto di dar luogo implicitamente a una serie di frizioni con la chiesa greco-cattolica ucraina, che da anni denuncia lo spirito conquistatore di Mosca (Crimea e Ucraina orientale sono gli esempi più eclatanti). Sotto il profilo politico, è sufficiente tornare al 2013, quando la Santa Sede guardò proprio al Cremlino per fermare l’offensiva anglo-franco-americana su Damasco, che sembrava imminente. Prima ci fu l’Angelus del 25 agosto con l’invocazione della pace in Siria, quindi la veglia in piazza San Pietro, infine la lunga lettera (accompagnata da benedizione) a Putin in qualità di presidente di turno del G20. Da lì, ci sono stati incontri e contatti continui.
La linea riguardo il medio oriente è la medesima: difesa delle comunità cristiane, grande diffidenza per i cosiddetti ribelli moderati, sostegno (seppure più sfumato nella visione della Santa Sede) di Bashar el Assad. Anche perché questa è la posizione mantenuta negli anni della guerra civile siriana dalle più alte gerarchie cristiane locali, cattoliche e ortodosse, fieramente antiamericane e portate a guardare con fiducia al ruolo della Russia. “Il nuovo assetto geopolitico, con Trump alla Casa Bianca, va bene a tutti”, dice al Foglio don Stefano Caprio, docente di Cultura russa al Pontificio istituto orientale di Roma. “Magari non lo si può dire, ma è così”, prosegue. “E’ interesse di tutti che la situazione nel vicino e medio oriente si stabilizzi, a Mosca come a Washington. E la Santa Sede non può che vedere di buon occhio tale sistemazione”. Anche perché “lasciare alla Russia il controllo del medio oriente è sempre interessato alla chiesa cattolica, soprattutto per ragioni spirituali. Insomma, quella regione è ortodossa”.
Certo, comprendere a fondo l’attuale linea della Casa Bianca non appare impresa facile: “Trump è imprevedibile, e nessuno può dire come si metteranno le cose. Io però – dice don Caprio – ho l’impressione che Trump, alla fine, sia una manna per il Vaticano. La sua politica internazionale, per come è stata abbozzata, ha molti punti di contatto con quella della Santa Sede, molti in più rispetto a quelli che avrebbe prospettato una presidenza Clinton e non solo sul piano etico”. Le divergenze ci sono, e i recenti ordini esecutivi hanno mostrato che la strada è tutt’altro che spianata. Basti considerare le affermazioni del Patriarca caldeo di Baghdad, mar Sako, che ha criticato le restrizioni all’ingresso in territorio americano, parlando di un enorme danno ai cristiani d’oriente, che si troverebbero ancora più esposti alle vessazioni nemiche in patria.
Il disegno diplomatico vaticano guarda a est e, in particolare, all’intesa con Mosca anche a costo di “sacrificare i cattolici in Russia, che però sono pochissimi e non hanno una gran voce in campitolo”, osserva Caprio. “Diciamo che con Papa Francesco si è sviluppata una sorta di Ostpolitik 2.0, i cui segni erano già presenti prima della sua ascesa al Soglio petrino, ma che ora ha mostrato i suoi effetti. Una Ostpolitik che, a ogni modo, non ha nulla a che fare con quella casaroliana portata avanti nella prima parte del pontificato di Giovanni Paolo II”.
Il triangolo, o quantomeno i suoi contorni, inizia così a definirsi. Se Washington è ben disposta nei confronti dell’uomo forte del Cremlino, da oltretevere si rilancia con un’apertura sul fronte etico e spirituale. L’incontro di un anno fa in terra cubana tra il Papa e Kirill va in questa direzione (basti ricordare i numerosi accenni alla difesa della famiglia naturale contenuti nella Dichiarazione congiunta), e il fine ecumenico è così fondamentale per Francesco al punto d’aver parlato – ricorda Allen – di “guerra fratricida” in Ucraina e non di aggressione russa, sconcertando la chiesa greco-cattolica locale, come ammise davanti alla stampa l’arcivescovo maggiore di Kiev, Sviatoslav Shevchuk, quando parlò di “ferita” alla “sensibilità degli ucraini”. Il fatto è che, scriveva il vaticanista americano, “il Papa non vuole fare nulla che possa riportare indietro le lancette dell’orologio” nei rapporti con il Patriarcato. E per farlo è necessario “non essere percepiti come ostili agli interessi nazionali della Russia”.