Non c'è nulla di terribile nelle epurazioni papali. Basta chiamarle per nome
Francesco desidera attorniarsi di persone con una visione in linea con la sua agenda, sintonizzate sulla frequenza “periferica”, stare in mezzo al gregge più che in dotti cenacoli intellettuali
Roma. Manovre interne, promozioni improvvise, cordate e correnti. E’ il 2017 ma siamo sempre lì, ai “corvi che volano nella boscaglia” (copyright di Tarcisio cardinal Bertone all’epoca del primo Vatileaks che azzannava il pontificato ratzingeriano), agli spifferi, al gossipame. Non saranno gli anni dei Papi Borgia, con cadaveri nel Tevere, cardinali avvelenati in cene ricche annaffiate da vino di scarsa qualità, ma insomma, il quadro che emerge non è idilliaco (eufemismo). Gerhard Ludwig Müller, nell’intervista pubblicata ieri dal Foglio ha detto che la nomina del nuovo segretario della congregazione (cioè del numero due) giunta martedì – si tratta del biblista Giacomo Morandi – forse spiega anche la sua estromissione. Che evidentemente non era dovuta alle troppe interviste – pratica normale nel corrente pontificato, come dimostrano i colloqui su Baruch Spinoza scomunicato dalla chiesa quando la chiesa scomunicarlo non poteva, visto che era ebreo – o alla necessità di ringiovanire il parterre delle porpore: Müller ha sessantanove anni, altri anche chiacchierati per vicende poco ortodosse legate ai segretari personali proposti per l’episcopato, di primavere sulle spalle ne hanno ottanta o giù di lì e rimangono saldamente ancorati allo scranno curiale.
Semplicemente, Francesco desidera attorniarsi di persone con una visione in linea con la sua agenda, sintonizzate sulla frequenza “periferica”, meno rapita dal sacro fuoco del dogma e più propensa a mescolarsi alle pecore, a stare in mezzo al gregge più che in dotti cenacoli intellettuali. Il che è del tutto legittimo. Per fare la rivoluzione è meglio avere dietro di sé giacobini convinti che boccoluti duchi dell’Ancien Régime. Come un allenatore che gradisce avere a disposizione giocatori utili alla causa e che cerca finché è in tempo di eliminare le mele marce vere o presunte e di liberarsi di chi rema contro. In ciò non v’è nulla di male, eretico o apocalittico. Francesco non distrugge nulla, non mina le fondamenta della chiesa né trasforma in una forma di groviera la barca petrina. Promozioni e rimozioni, allontanamenti e avvicinamenti se ne sono sempre visti e pure Benedetto XVI ne ha fatti, soprattutto all’inizio del pontificato, quando mandò a Napoli l’allora prefetto della congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli (il cardinale Crescenzio Sepe, fin lì potentissimo) e ad Assisi l’allora segretario della congregazione per il Culto divino, mons. Domenico Sorrentino. Per non dire della sostituzione del maestro delle cerimonie liturgiche, la staffetta tra i due Marini, Piero e Guido.
Basterebbe però che anche nella rappresentazione mediatica lo si dicesse, senza per forza edulcorare sempre il racconto con descrizioni fiabesche o zuccherose scene da famiglia del Mulino Bianco dove tutto va bene in piena e sacrosanta armonia.
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