Neppure l'Autorità della Veridicità può fermare il mercato delle bufale
Gli errori del presidente Pitruzzella sul controllo del web: la proposta ricorda vagamente il noto progetto di costituire una agenzia di rating finanziario nazionale a tutela del “vero” valore del debito pubblico
Quando a proporre la creazione di un monopolio pubblico è il presidente dell’Antitrust, è doveroso replicare. A maggior ragione se il monopolio proposto è quello sulla veridicità delle notizie su internet, che negli auspici di Pitruzzella andrebbe affidato a un’agenzia pubblica che stabilisca se un’informazione sia vera o falsa, e in quest’ultimo caso abbia il potere legale di rimuoverla(!) dalla rete, contendendo così lo strapotere di intermediazione detenuto dagli odiati “gatekeepers” di internet, da Facebook a Google. La proposta ricorda vagamente il noto progetto di costituire una agenzia di rating finanziario nazionale a tutela del “vero” valore del debito pubblico, per contrastare le affermazioni, immancabilmente ingiuste e infondate, quando non speculative o addirittura complottistiche, delle agenzie internazionali sedicenti indipendenti, ma in realtà al soldo dei soliti “poteri forti”. Laddove la proposta sulla rating agency è economicamente risibile, quella di Pitruzzella è invece potenzialmente e seriamente illiberale.
Pur riconoscendo al presidente dell’Antitrust il merito di voler sollecitare un dibattito su questi temi, dei suoi interventi – prima sul Financial Times e poi sul Corriere della Sera – sono da rigettare sia le premesse sia le proposte. Al contrario, si può e si deve impostare la discussione su logiche rigorose, prospettando possibili soluzioni tecnologiche e organizzative ispirate a criteri di efficacia ed efficienza, e non certo scorciatoie tanto illiberali quanto impraticabili.
La critica di Pitruzzella alla diffusione di notizie “palesemente false” è umanamente comprensibile, ma priva di rigore logico. L’accuratezza di una notizia non è una condizione binaria (vero/falso), bensì una misura continua, che varia tra due valori estremi, meglio definibili come massimamente attendibile e massimamente inattendibile. Le cosiddette fake news sono quindi classificabili, dal punto di vista logico, come un “fuzzy set”, ovvero un insieme sfocato di contenuti editoriali dal diverso grado di attendibilità. Ne consegue che la veridicità di una notizia su internet, prima (e invece) di essere una condizione giuridica assoluta, è un normale fattore economico: il suo prezzo è la reputazione della fonte; gli utilizzatori lo pagano con l’aumento della domanda informativa da fonti autorevoli, facendone quindi lievitare il prezzo relativo in termini di valore dell’attenzione umana. Al contrario, l’inattendibilità della notizia riduce il prezzo relativo della reputazione e inflaziona la produzione della fonte. Proprio qui il contributo di Pitruzzella è fallace: nell’idea che qualità – e relativo prezzo – della veridicità debbano essere fissati centralmente dallo Stato, poiché – a suo dire – non si può accollare allo sprovveduto lettore il gravoso onere dell’approfondimento e della verifica. Invece: non c’è alcun diritto precostituito a non essere “ingannati” da semplici notizie, perché altrimenti dovrebbe esistere un simmetrico – e impossibile – dovere (in capo a chi?) a prevenire ogni possibile forma di imprecisione editoriale; c’è semmai un legittimo interesse personale del lettore alla verifica e alla comparazione delle fonti, come in ogni atto di espressione delle preferenze personali nelle scelte di informazione. Se tale eccesso di tutela può essere ipoteticamente invocato per i minori, per cittadini adulti esso diventa, nella migliore delle ipotesi, peloso paternalismo; nella peggiore, censura di regime.
Ciò che consente meglio di comprendere e regolare il fenomeno delle fake news, quindi, non è una solenne Autorità Centrale della Veridicità, ma al contrario un modesto e ben più banale modello di scambio economico. Il mercato delle fake news, infatti, è antico come il mondo. E’ il mercato del mistero e del pensiero magico, dei miracoli e dei complotti. E’ l’atavico e mai sopito fabbisogno di spiegazioni semplici e immediate. E siccome la domanda rimane alta, l’offerta ne sfrutta razionalmente le dinamiche. Le fake news sono sempre state ospitate sui settimanali scandalistici, solo che ci si vergognava a comprarli (un po’ meno a leggerli dal barbiere), visto che comunque costavano qualche soldo. Ora il prezzo di accesso alle bufale è crollato praticamente a zero, grazie alle tecnologie digitali, ma non altrettanto ha fatto il valore di mercato dell’attenzione umana a esse associata, oggi facilmente catturabile tramite la piattaforma AdSense (e rieccoci a Google…), senza bisogno di una tradizionale concessionaria pubblicitaria. Quindi il business, per chi sa vederlo, è chiaro: sia esso un sito offshore o una rispettata azienda pubblicitaria che governa con autorevole saggezza un civilissimo movimento di cittadini onesti. Con internet finisce l’oligopolio editoriale sul lato offerta, e si riducono i costi di produzione, distribuzione e accesso ai contenuti. I produttori di fake news, inoltre, puntano a minimizzare anche i costi accessori di controllo editoriale e le potenziali responsabilità legali e fiscali. Ma Internet ha cambiato anche il lato domanda, allargando la propria audience: fino a qualche anno fa, l’autoselezione culturale e tecnologica manteneva i social un luogo relativamente elitario, con una massa critica di utenti dotati degli strumenti per discernere. Ora su internet ci sono tutti gli animali della fattoria umana. E si portano dietro il loro bagaglio di curiosità, domande e mezzi per affrontarle, per quanto limitati.
Gli strumenti tecnologici per arginare (ma non certo per bloccare) questo fenomeno sono già a disposizione delle piattaforme social, che hanno tuttavia solo un blando interesse a limitarlo, seppure non direttamente, bensì tramite forme di social rating e di fact checking affidato a terze parti. E’ quanto ha recentemente annunciato Facebook, con la costituzione di un sistema di segnalazione di “disputed news” affidato al giudizio di terze parti indipendenti. La soluzione più efficace ed efficiente tuttavia è attesa dallo sviluppo di processi algoritmici di autenticazione distribuita tramite “smart contracts”. Il centro di ricerca Cefriel ne sta sviluppando un prototipo, applicato ai contenuti video, in collaborazione con Google (sempre loro). Ma gli Ott non accetteranno di prendersi la responsabilità integrale del controllo e quindi diventare editori a tutti gli effetti. La selezione editoriale affidata a Facebook e Twitter confina infatti da un lato con i paletti della libertà di espressione e dall’altro con il posizionamento da azienda tecnologica neutra – e non di media company, con tutte le sue responsabilità – che consente di non sottoporsi a una serie di vincoli normativi (e magari anche fiscali) ai quali invece sottostanno gli editori locali.
La strada, per quanto lunga e complessa, per limitare gli effetti indesiderabili delle fake news è quindi sintetizzabile in tre punti: in termini tecnologici, consentire la ricostruzione dell’origine e della catena distributiva delle informazioni con meccanismi di tracciabilità digitale e di “social rating” distribuito sulla loro attendibilità. In termini economici, alzare il costo della reputazione di chi le produce e le distribuisce, così da consolidare un deterrente alla loro diffusione. In termini culturali, infine, la sfida è educare i cittadini all’accesso responsabile e critico alle fonti informative.
Poi, si sa, succede sempre che qualcuno dia la colpa alle fake news per le sconfitte alle elezioni. Ma tra un sito bulgaro che spaccia bufale sul web e il ferreo controllo editoriale della politica sulla tv di stato, un liberale non vede tuttora molta differenza. O forse sì. Il primo, infatti, si conquista i suoi “click bait” col sudore della fantasia, per quanto cinica, volgare e strumentale. Al secondo, invece, basta mettere il canone in bolletta.