Mafia Capitale sparisce dai giornali mentre la mafia sparisce dall'inchiesta. Ops
A ventisei mesi dall’inizio del grande circo su Mafia Capitale tutto inizia a essere chiaro: la mafia non si trova, le accuse cadono, le corti chiariscono ma il bollino resterà. Storia di un flop annunciato
Sono passati ventisei mesi dal giorno in cui l’opinione pubblica italiana ha fatto la sua conoscenza con due parole importanti che da anni ormai accompagnano la vita della capitale del nostro paese. Le due parole sono “Mafia Capitale” e a ventisei mesi dai primi arresti quella che poteva sembrare solo un’impressione oggi è un fatto: la grande inchiesta che, tra mille rulli di tamburi e fanfare grilline, avrebbe dovuto portare alla luce l’esistenza, a Roma, di una nuova Corleone non è riuscita a dimostrare la presenza di un’organizzazione di tipo mafioso capace di condizionare con la sua forza di intimidazione l’amministrazione della capitale italiana. Prima i fatti, poi le opinioni. Piccolo riassunto delle puntate precedenti. Pochi giorni fa, la Corte d’appello di Roma ha ridotto le pene per quattro persone condannate per corruzione nell’ambito del processo di Mafia Capitale. Tra queste, anche Emilio Gammuto, collaboratore di Salvatore Buzzi, considerato uno dei capi dell’organizzazione mafiosa. Piccolo dettaglio: per lui la Corte d’appello ha escluso l’aggravante mafiosa. Zeru tituli. Andiamo avanti? Andiamo avanti. A Ostia, quella che doveva essere la terra dei nuovi padrini, la Corte d’appello, lo scorso settembre, ha detto che non esiste, che non c’è nulla, che è un’invenzione. E all’interno delle 150 pagine con cui ha affermato la mancanza di una prova che potesse certificare la presenza della “pervasività mafiosa” nella Corleone di Roma, afferma tre cose chiare.
In sintesi. Afferma che: (a) non è provato “il diffuso clima d’intimidazione proprio del metodo mafioso”, (b) le dichiarazioni del principale pentito del processo sono fragili e “non possono ritenersi riscontrate nel presente procedimento” e (c) certamente vi sono stati, a Ostia, “singoli atti intimidatori, posti in essere nei confronti di singoli soggetti” ma restano dei singoli atti – usura, estorsione, traffico di sostanze stupefacenti, detenzione e porto di armi, acquisizione di attività economiche in modo occulto – che ci dicono una cosa sola: “L’atteggiamento tenuto dai test escussi nel corso del dibattimento di primo grado non può essere ricondotto in modo univoco a strategie intimidatorie o comunque a uno stato diffuso di soggezione”. Andiamo avanti? Andiamo avanti. Qualche tempo dopo, siamo a ottobre, mister anti corruzione, Raffaele Cantone, ha detto che la mafia a Roma lui non l’ha vista: “Posso escludere ad oggi di avere mai individuato e segnalato alle procure ipotesi di 416 bis, cioè associazione di stampo mafioso”. Può bastare? Non basta. Andiamo avanti.
Il più importante politico indagato per mafia nell’inchiesta della procura di Roma, l’ex sindaco Gianni Alemanno, qualche mese fa ha visto decadere l’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso che gli era stata contestata. Niente mafia, ancora. E come se non bastasse, il capo di gabinetto del presidente della regione Lazio, che doveva essere il simbolo dell’allargamento dell’inchiesta, a ottobre è stato assolto con formula piena. Zeru tituli. Bene. Diciamo tutto questo per dire che a Roma va tutto bene e che la criminalità non esiste? Ovviamente no. Lo diciamo per far notare qualcosa di clamoroso che sta accadendo nella capitale italiana e che ha avuto effetti dirompenti sulla vita del nostro paese. Scegliere di mettere accanto alla parola “Capitale” la parola “Mafia” è stata una decisione forte che ha portato grande visibilità ai magistrati della procura di Roma, e molto fango sulla capitale d’Italia; ha permesso all’inchiesta di avere una copertura mediatica internazionale; ha permesso ai magistrati di poter indagare sui sospettati utilizzando strumenti di indagine invasivi che si possono usare solo quando qualcuno viene accusato sulla base del 416 bis (più tempo per le intercettazioni, meno vincoli sulle perquisizioni); e ha contribuito ad alimentare quella retorica dell’onestà che ha permesso al Movimento 5 stelle di conquistare il Campidoglio.
A ventisei mesi dai primi arresti, la mafia a Roma non si vede, i padrini non si trovano, le coppole non ci sono ma tutti fanno finta di niente e gli stessi giornali che hanno alimentato la bolla di Mafia Capitale ora fischiettano facendo finta di nulla e nascondendo le notizie sui flop dell’“inchiesta del secolo” in un boxino a pagina 14. Nessuno spirito critico. Nessuno che si chieda come sia stato possibile che, come vittime della violenza e delle minacce del gruppo “mafioso”, in dibattimento, i pm abbiano portato (a) un gioielliere dei Parioli per una storia relativa al pagamento di tre Rolex, (b) un venditore ambulante, (c) un pensionato vessato per tremila euro di interessi usurari, (d) un orafo che doveva fare un affare in Africa finanziato da Carminati e poi sfumato. A Roma, come capita circa da duemila anni, c’è corruzione, ma la mafia è qualcosa di diverso, no? Ecco: la storia dell’inchiesta romana ci dice qualcosa di cruciale su un tratto importante della nostra cultura giudiziaria: la facilità estrema con cui si dà del mafioso a qualcuno, fregandosene poi se il bollino appiccicato sulla fronte era vero oppure no, e la prevalenza nel nostro paese del pensiero unico giustizialista, che prevede la formazione di ole quando i magistrati attaccano e che prevede l’insabbiamento dei flop quando si capisce che ciò che sembrava oro invece era fuffa. E prima di trasformare la capitale d’Italia nella capitale della mafia forse sarebbe stato bene pensarci due volte. O no?
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