Ma che stai a di'?
Abbiamo tutti un blues e un dialetto da piangere. In Inghilterra, complice la saudade da fine dell’estate, è scattato l’allarme per l’estinzione del cockney, lo slang – è anche un vero e proprio accento – dei proletari dell’East End londinese, quello che da “moderna corruzione” della lingua inglese (così fu definito agli inizi del ‘900) era poi stato votato, nel 2008, “quarto accento più fico della Gran Bretagna”, tanto da venire ammesso persino sulla Bbc, dove per decenni era stata consentita solo la received pronunciation, nota pure come Queen’s English, cioè la dizione perfetta.
Non avendo la diretta di Miss Italia su Rai1 da compiangere, gli inglesi si sono lanciati sulla glossa: l’ultima quindicina di agosto è difficile per tutti. “Cockney Rhyming Slang is nearly Brown Bread”, ha titolato il Guardian: la traduzione letterale sarebbe “lo slang ritmato del cockney è quasi pane integrale”, ma quella giusta, cioè sostanziale, è “il cockney è quasi estinto”. In verità, come spesso accade quando ci si fa travolgere dalla commistione di nostalgia e passione necrofila per il canto del cigno di fenomeni, valori, culture, supporti analogici eccetera eccetera, di vero c’è poco: il cockney sta benone. Parola di Johnathon Green, lessicografo londinese, autore di un dizionario in tre volumi dello slang che, in un’intervista pubblicata sull’Atlantic pochi giorni fa, ha spiegato che in atto c’è un’evoluzione, non un’estinzione. Il solo fatto che nel 2015, sui media di tutto il paese, ci si riferisca a Victoria Beckham con l’appellativo “Posh and Becks”, di recente e inconfondibile conio cockney, secondo Green è un esempio lampante dell’ottima salute dell’idioma – salvato da quella stessa generazione (di 18-25enni, quindi millennial) che, secondo un sondaggio recente condotto dall’agenzia ICM Unlimited, fatica a decrittare le frasi cockney molto più di un qualsiasi quarantacinquenne inglese. Il 40 per cento degli intervistati millennial non sa che “Rosy Lee”, in cocnkey, indica il tè (il sondaggio è stato commissionato da un’azienda di tazzine, la Rosy Lee tea Company: il cockney non è stato solamente sdoganato, ma colora persino la comunicazione aziendale di un prodotto sacro e patriottico come è il tè per gli inglesi, popolo che, dopotutto, è retto ma non governato da una regina immortalata nell’iconografia storica da un disco dei Sex Pistols, mica da uno di quei pallosi ritratti da corridoio).
[**Video_box_2**]Il bello di quest’idioma londinese è che, oltre alla deliziosa sguaiatezza della sua pronuncia, la connessione tra i suoi modi di dire e il loro significato è particolarmente difficile da scovare, in modo ancora più accentuato rispetto a quanto accade negli altri slang – chissà che faccia farebbe un inglese, che parli disinvoltamente italiano, se scoprisse che “varvalish”, in dialetto lucano, significa “lumache”. Un esempio: chiappe, in cockney, si dice “ala”, che è l’abbreviazione di alabastro, un materiale di cui Parigi è zeppa. Paris rima con Aris, abbreviazione di Aristotele, che a sua volta rima con bottle (bottiglia), cui si associano i glass (bicchieri), che rimano con ass (culetto). Una meccanica esaltante che, tuttavia, i millennial stanno accantonando: oggi, le rime non sono più costruite parola per parola, ma rimandando ai concetti di intere frasi (il vecchio cockney contava non più di un centinaio di espressioni: adesso, secondo Green, ne conta tremila), lasciando intatta la ritmicità tipica del rap e dell’hip hop che oggi, tanto nei paesi anglofoni quanto da noi ex latinisti ginnasiali pluriripetenti, sembrano i candidati ideali per rivitalizzare la lingua e, perché no, insegnarla. Esistono molte band inglesi che fanno rap in cockney: Shameless, Jehst, Demon Boyz e che, a dispetto di quanto scrivono i blogger (specialisti nell’eterogenesi del pelo dell’uovo a tutte le latitudini), se ne fregano di essere capiti in America e preferiscono parlare il quarto idioma inglese più fico che c’è, anche se la conseguenza è restare ignoti oltreoceano, dove il rap e l’hip hop stanno facendo qualcosa di ugualmente straordinario, ma differente: produrre album che tornino a essere narrazione (un esempio su tutti è “Compton”, l’ultimo disco di Dre). Dalle nostre parti questi due generi sono ancora acerbi, ma da lì arrivano i testi che, più degli altri, fanno ricordare quanto ricco e malleabile sia l’italiano. Non è impensabile che i nostri dialetti – persino più inorgoglienti del cockney – trovino nuova linfa nei testi di qualche rapper: farglielo presente sarebbe un’ottima petizione.