Il futuro della tv nell'epoca della post verità. Un forum
Facebook? E’ un editore. L’incubo? Il palinsesto algoritmico. Il Foglio intervista Campo Dall’Orto (Rai), Confalonieri (Mediaset), Soldi (Discovery) e Grasso (Corriere) per capire la tv che sarà
Lunedì pomeriggio al Teatro Parenti, a Milano, il Foglio ha organizzato un convegno sul futuro della televisione nell’epoca della post verità. Claudio Cerasa ha intervistato Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset; Antonio Campo Dall’Orto, direttore generale della Rai; Marinella Soldi, amministratore delegato di Discovery Channel Italia; Aldo Grasso, critico televisivo del Corriere della Sera. Pubblichiamo ampi stralci della chiacchierata.
Cerasa: “Professor Grasso, non ci giriamo attorno e partiamo subito con un po’ di ottimismo: la televisione è morta?”.
Grasso: “Secondo me la televisione non è mai stata viva come in questo momento. Se però mi chiede di definire cosa sia la televisione sono in grave difficoltà, perché è diventata qualcosa dalle molte facce, difficile da capire. Quando noi parliamo di Tv, di internet, dei nuovi media, dimentichiamo e di fare una piccola premessa, che trovo fondamentale. In questi anni abbiamo assistito alla più grande rivoluzione che ci sia mai stata nel campo della comunicazione. Normalmente le evoluzioni nel mondo della comunicazione sono sempre partite da uno scalino tecnico, dal telegrafo con i fili a quello senza fili, poi il telefono, la Tv in bianco e nero e quella a colori: era tutto qualcosa di molto consequenziale. Qui invece è successo qualcosa di molto profondo. E’ come se, nel giro di un paio di anni, un antropologo è passato dallo studio dell’Homo Erectus allo studio dell’Homo Sapiens, e tutto questo è avvenuto grazie alla digitalizzazione, che è stata una rivoluzione senza pari. Non soltanto perché ha fatto evolvere i mezzi, e quindi ci ha dato un segnale più avanzato e nitido, ma la cosa incredibile è che ha riunito tutti i mezzi di comunicazione con un unico segnale. Se fino a ieri abbiamo studiato la storia del telefono, del teatro, della radio, della tv, ora improvvisamente non esistono le storie dei singoli mezzi, ma esiste la storia di un mezzo nuovo, che ha il nome tecnico della “convergenza”. Tutti in tasca avete un smartphone e in quello smartphone vi è la più grande rivoluzione che sia mai avvenuta. Devo dire che va fatta questa premessa, altrimenti non si riesce a capire cosa è successo. Questa premessa, dicevo, ha cambiato tutto: ha cambiato lo scenario non solo della Tv ma di tutto il mondo della comunicazione. Lo ha cambiato, ad esempio, attraverso una frattura generazionale che non c’era mai stata nel mondo della comunicazione. Noi più vecchietti amiamo ancora vedere la tv sullo schermo in salotto, ci piace vederla col telecomando in mano, c’è un’intera generazione di giovani che non sa cosa sia quello strumento una volta chiamato televisore. Tutto quello che guardano lo guardano su altri device, sul computer sull’iPad. C’è stata una frattura per quanto riguarda i mercati. La digitalizzazione ha allargato i mercati di tutte le televisioni e allo stesso tempo ha ristretto i singoli paesi. Confalonieri lo ricorderà bene: negli anni 80 e 90, l’Italia era in Europa una corazzata televisiva. Nel momento in cui si sono allargati questi mercati, i paesi si sono ristretti, tecnicamente perché l’audience diminuisce, perché diminuisce il fatto che si vede la televisione tradizionale, la vedono meno persone, ma poi circolano più prodotti, tutto si internazionalizza. Quindi il sistema Italia su uno scenario internazionale, globale come bisogna ormai dire, diventa un po’ più piccolo. C’è poi un altro grande passaggio che ha portato alla digitalizzazione. Noi siamo tradizionalmente cresciuti con la televisione che era anche un grande orologio sociale, nel senso che la televisione aveva degli appuntamenti fissi, come il tg alle 20, in cui la comunità si riuniva davanti allo schermo e faceva un’esperienza unica, dove gran parte della nazione vedeva lo stesso programma ed era informata nello stesso modo. Il motore di questo orologio sociale si chiama palinsesto che è esattamente come un orario dei treni. Ora che sono spariti gli orari dei treni sta sparendo anche quel tipo di televisione. Sta sparendo l’idea che per vedere un programma devi prendere quel treno a quell’orario. Se perdi quel treno hai perso quel programma. Oggi è diverso. Oggi il consumo della televisione è più paragonabile a una playlist, nel senso che io posso vivere senza la schiavitù dell’orario, non ho costrizioni. Curiosamente in tutto questo processo di ultra modernizzazione sono convinto che il mondo della televisione sta sempre più assomigliando al mondo delle case editrici: bisogna avere dei cataloghi ben forniti, bisogna fare buoni programmi, e come si sceglie un libro in una casa editrice, così le televisioni sceglieranno i programmi. Mi sembra che sia questo il punto. Quindi, per rispondere alla sua domanda, mi ricordo che quando ero giovane e si parlava di cinema si parlava di morte del teatro. Il teatro non è morto. Quando ho cominciato a occuparmi di televisione si parlava di morte della radio. La radio non è morta. Adesso che c’è internet si parla di morte della televisione e diciamolo, la televisione non è morta”.
Cerasa: “Presidente Confalonieri. Il professor Grasso ha descritto uno scenario in cui oggettivamente vi è una grande rivoluzione economica e di costumi che comporta una grande trasformazione della televisione. Dovendo immaginare i prossimi due anni, quali sono delle strategie concrete – a livello di contenuti e a livello di modello di business – per stare al passo di questa rivoluzione descritta da Grasso?”.
Confalonieri: “Veramente, io mi ero preparato a futuro e la post verità… Poi scusi, direttore, io ho ottanta anni, lui ne ha sessanta, facciamo l’inizio del regno d’Italia insieme! Se vogliamo parlare di futuro, Cavour è un nostro contemporaneo! Ma a parte il joke, io su tutte queste cose, e lo dico per la mia età, per esempio la post verità, ho la sensazione di tornare bambino alla portineria o alla casa di ringhiera, io sono dell’isola, e mio nonno faceva il prestinaio in via Borsieri, e mi ricordo che lì si parlava, si faceva pettegolezzo, le fake news sono queste cose qui: sono le verità postate come diceva Grasso. All’epoca, il pettegolezzo non andava da via Borsieri a corso Como, perché allora c’era un ponte pedonale, che ora non c’è più. Ora fanno il giro del mondo, le vedono, le sentono centinaia di migliaia di persone, a volte milioni. Vede, per passare ad altro: martedì scorso ero alla Siae, dove hanno fatto un convegno sulla creatività, in cui si parlava degli over the top. Ecco: quello con cui ci dobbiamo confrontare quotidianamente sono gli over the top. Le fake news, le post verità sono quelle cose inventate perché non c’è responsabilità, perché non c’è il direttore. Lei che fa il direttore si becca delle querele se lei o qualche suo collaboratore scrive qualcosa di falso. Ma per continuare a trattare con un po’ di serietà questo mestiere, bisogna portare questi signori, di Facebook, di Google a fare l’editore e dire che hanno la responsabilità delle notizie che mettono in giro, perché se viene diffusa, commentata, è responsabilità loro. Le racconto un episodio. Quando morì Brezhnev io ero l’ad del Giornale, Montanelli era il direttore e c’era il condirettore che era Enzo Bettiza. Montanelli era molto amico di un grande giornalista, Stevens, che era stato con lui in Finlandia durante la guerra d’inverno, e che aveva la notizia della morte di Brezhnev in esclusiva. Per senso di responsabilità, e stiamo parlando di Indro Montanelli, il più grande giornalista degli ultimi 100 anni, il direttore ha messo un punto di domanda. Questa è la responsabilità. Siamo sempre lì, l’anonimato è una delle cose più gravi, a cui sono contrario: come può uno arrivare uno, buttare in rete qualcosa e sparire senza che nessuno conosca la sua identità? Una volta le lettere anonime le buttavamo nel cestino, e chiamavano corvi quelli che le scrivevano. Queste sono le due cose importanti: no all’anonimato e no alla mancanza di responsabilità. Questa deve essere la linea maestra. Il nostro mestiere poi lo vedo dappertutto, anzi, adesso hai anche le tv che costano 5/600 euro che ti danno tutto, sei collegato su internet e vedi l’ira di Dio. Questi sono gli effetti della tecnologia e della globalizzazione, che hanno improntato questa grande rivoluzione che è avvenuta oggi. Le mi dice due anni. Ma chi lo sa? Adesso c’e Trump, la Brexit, mi lasciano dubbioso. Non voglio dare giudizi su Trump, perché mi sembra un po’ troppo, quelle sfilate che non finiscono più, o di gente come noi, qui tutti noi abbiamo un po’ la puzza sotto al naso, leggiamo libri, andiamo a teatro, sentiamo musica, quello li arriva con il ditino così e con quella capigliatura, mi ricorda tanto le critiche che facevano a Berlusconi. Poi, quando uno pensa ai migranti, certo, se vedi un muro così io non mi sentirei di sparare ai migranti o di fermare i residenti. Ma fa qualcosa, ed è il frutto di tutti questi fenomeni che valgono anche per la comunicazione politica. Pensiamo a Grillo…”.
Cerasa: “Ci sta dicendo che Grillo è figlio dell’epoca delle fake news?”.
Confalonieri: “Grillo non è fake news, è real news, è qui, ce lo abbiamo tutti i giorni. Lei mi chiede fra due anni la Tv, a parte che fra due anni io non ci potrei essere più, direte un Requiem sarà ben gradito, meglio ancora se di Verdi o di Mozart, però non si può far previsione. Due anni fa, dove eravamo due anni fa? Mi ricordo quando Berlusconi è diventato premier, il giorno stesso hanno aperto le buste per i telefonini, c’era De Benedetti che partecipava e vinse, guarda caso, era Ciampi il premier uscente. Stiamo parlando di 22 anni fa, e non c’era il telefonino. Lei mi chiede di fare un pronostico per un decimo di quel tempo?”.
Cerasa: “Direttore Campo Dall’Orto. Confalonieri ha introdotto un tema centrale che riguarda i top player e il rapporto con le fake news. Alcuni governi, come quello tedesco e quello italiano, hanno ammesso di voler portare avanti una campagna per responsabilizzare Facebook (non ancora Google) e trasformare in editore chiunque veicoli dei contenuti sulle proprie piattaforme. E’ d’accordo anche lei?”.
Campo Dall’Orto: “Per rispondere a questa domanda bisogna capire dove ci proiettiamo. Ha ragione Confalonieri, è difficile ma ciò non toglie che dobbiamo provare. Dovete mettervi nei panni di chi, come noi, sta per ricevere una concessione che riguarda gli obiettivi dei prossimi dieci anni. E’ difficilissimo darsi oggi un obiettivo per dieci anni. Però, allo stesso tempo, non è che non dandoselo uno ha una soluzione migliore. Io sono d’accordo sul fatto che siamo dentro a una rivoluzione molto profonda. E’ moto profonda perché innesta una quantità di risorse e di competenze che io non esito a definire inarrestabili. Voglio dire: quello che è avvenuto nella costa ovest degli Usa negli ultimi dieci anni, credo che sia il più grande investimento in eccellenze intellettuali fatto nella storia per via della quantità di ingegneri messi a lavorare al supporto delle esigenze dell’individuo. Mi riconosco nel concetto di playlist. Avendo lavorato molto nella musica, la playlist era possibile farsela quando c’era uno strumento di musica personale come il Walkman. Era difficile, ma avevamo più tempo. Allora decidemmo che volevamo tutti la stessa musica. La convergenza fu molto forte. Con l’iPod nel 2004 è avvenuto uno shock tecnologico che ha abituato la gente a un concetto nuovo: la parità. Un concetto che poi, per quanto riguarda la tv, è stato trasferito anche nei reality. Queste cose hanno fatto sì che ognuno si definisse in modo diverso dagli altri. In questo senso, volendo fare un passo in avanti, dobbiamo accettare l’idea che le prossime frontiere saranno quelle che verranno disegnate dalle intelligenze artificiali, che apriranno una nuova era nell’ambito della soddisfazione dell’individuo. Dobbiamo prepararci anche a fare i conti con un mondo in cui la fruizione di contenuti diventerà esperienza diretta tramite la realtà virtuale. Fatta questa premessa, credo che i soggetti che fanno parte di questo mondo, penso agli over the topo, non possono non prendersi carico delle loro responsabilità. Per cui credo che Facebook Google debbano trasformarsi, diventando corresponsabili delle regole del gioco. Quanto a noi, invece, la questione centrale oggi, per essere al passo con i tempi, è quella di puntare forte sul concetto di media company. Bisogna essere abili sia a generare contenuti di livello sia a decidere se, in un mercato che si sta aprendo, tu vuoi giocare una partita finalizzata a raggiungere un pubblico diverso rispetto a quello di oggi. Anche fuori dal nostro paese. E’ chiaro che questo modello comporta sforzi non indifferenti dal punto di vista dei contenuti. E questo mondo, naturalmente, premia soprattutto i contenuti premium, come sport e fiction, che sono le nostre grandi macrocategorie. Lo sport dipende dai diritti, le fiction dalle idee. Capirete dunque che diventa questa la grande sfida industriale che il servizio pubblico deve porsi oggi: obbiettivi industriali e editoriali, nuoi link, universalità”.
Cerasa: “Marinella Soldi, ci dice se condivide le tesi di Confalonieri e Campo Dall’Orto sulla necessità di trasformare Google e Facebook in editori? E ci spiega poi, alla luce della sua esperienza, se ci sono delle particolarità del pubblico italiano rispetto ad altri paesi nelle modalità di fruizione o anche nella richiesta di contenuti?”.
Soldi: “Per quanto riguarda la responsabilità degli editori in generale, Facebook e Google, secondo me, non sono aziende tecnologiche ma sono editori. Quanto a noi, Discovery è nata come pay tv e in Italia siamo stati tra i primi a entrare in un mercato di direct consumer. Questo ci ha permesso, specie in Italia e Spagna e nei paesi nordici, di toccare milioni di persone. Quanto al consumatore, è una domanda complicata. Paradossalmente penso che i risultati che sono stati sorprendenti per molti di noi nel 2016 siano proprio dovuti al fatto che è quasi impossibile sapere chi è il consumatore medio e per questo spesso facciamo i conti con risultati sorprendenti. Discovery Italia è diversa dalle Discovery presenti in altri paesi. Ogni mercato ha dinamiche diverse. Quello che vediamo al livello macro è legato alla demografia del paese e alla sua struttura tecnologica. Se uno vuole vedere come sarà la fruizione nel paese tra due, cinque anni, e su questo giochiamo i business plan, basta guardare quello che avviene nei paesi nordici, dove da anni scende il consumo di tv, dove Netflix è presente nel 75 per cento delle case, dove l’inglese si parla esattamente come la lingua propria, dove c’è la fibra ovunque, dove c’è tanto buio, e perciò si guardano molti contenuti. Tolto il clima, anche gli altri fattori arriveranno da noi e se dobbiamo immaginare la tv del futuro dobbiamo fare i conti con questi dati. Quella che arriverà, ne sono certa, sarà sempre più un’epoca della frammentazione, che per chi produce contenuti, per chi pensa che la tv non coincida soltanto con il televisore ma sia qualcosa di più, sia la possibilità di consumare video entertainment dove voglio quando voglio, beh, se la mettiamo così, quella che abbiamo di fronte è un’epoca ricca di opportunità straordinarie. Molte ricerche dimostrano che in media si consuma un’ora e mezza di video in più al giorno rispetto a qualche anno fa. Dipende da dove e da cosa, ma penso che dal punto di vista del consumo italiano si parla di una situazione da un lato molto comune a tutti ma dall’altro molto particolare. Per quanto riguarda i punti di forza e di debolezza del nostro settore, dipende dal nostro obiettivo. Se si vuole andare oltre le nostre frontiere, come diceva Antonio, uno dei grossi limiti che abbiamo è la lingua. Non c’è niente da fare. E’ un limite all’interno dell’Italia e per l’esportazione. La lingua è una debolezza. “Dal punto di vista di forza, direi che c’è comunque una creatività molto forte, la stiamo vedendo anche noi, per la prima volta dei format sviluppati in Italia sono distribuiti all’estero e questa è una cosa molto importante che ci viene riconosciuta assieme alla nostra capacità di prendere rischi”.
Cerasa: “Presidente Confalonieri, che cosa invidia alla Rai, a parte il canone e Campo Dall’Orto?”.
Confalonieri: “Cerasa, guardi che lui viene da noi, eh…. No vede, vorrei fare una considerazione in coda a quello che diceva la Soldi. Non dimentichiamo che questo paese ha la concorrenza più forte che ci sia in tutta Europa. Noi ci siamo anche in Spagna. In Spagna ci sono due soggetti. Noi e De Agostini, come grandi editori. Questo fatto va tenuto presente per capire cosa possiamo fare per la produzione. In Spagna sono due produttori e, piccolo particolare, la rete pubblica non ha un minuto di pubblicità. Funziona meglio per noi, ovviamente, dove c’è il monopolio. Per tornare alla sua domanda… Alla Rai invidio Campo Dall’Orto in primis, ma poi anche il fatto che abbiano delle risorse straordinarie. Adesso hanno preso un sacco di soldi dal canone, spero sacrificheranno qualche cosa. O perlomeno che non facciano più dumping sulla raccolta pubblicitaria, perché c’è stato un momento in cui offrivano il 95 per cento di sconto… Questo è un fattore che rende molto difficile la concorrenza. Poi, vede, io alla Rai ho visto cose straordinarie, e ancora oggi su Rai5 ad esempio hanno sempre cose interessanti. La prima della Scala, per esempio, ha avuto due milioni di telespettatori. Per fare due milioni in quell’orario vuol dire che la gente ha interesse, che non è ignorante”.
Cerasa: “E Campo Dall’Orto, invece, cosa invidia a Mediaset a parte Confalonieri e forse Maria De Filippi?”.
Campo Dall’Orto: “E’ vero, io sono nato lì dal punto di vista televisivo, quindi ci sono molte cose che ho imparato lì, a Mediaset. Quello che invidio, invece, è la possibilità che hanno di essere plastici, più di noi. Hanno la possibilità di agire con maggiore agilità maggiore e capacità di esecuzione e in un mondo così mobile è un punto molto interessante. Lo hanno fatto negli anni sia espandendo i contenuti sia acquistando società di fiction. Questa cosa credo sia molto bella. Anche sul tema della pubblicità, io sono d’accordo che un soggetto pubblico dovrebbe stare attento agli sconti. In un mercato dove hai pochi soggetti, la leva dei prezzi fa male a tutti. Credo anche che il servizio pubblico deve avere maggiore attenzione all’impatto che, per sua natura, ha su molteplici soggetti”.
Cerasa: “Direttore. Un aanno fa la intervistammo sul Foglio, e disse che la Rai, sotto la sua direzione, avrebbe superato la dittatura dell’auditel. Oggi direbbe ancora una cosa del genere, perché alla luce di alcuni risultati dell’auditel, come dire, ci sonoprogrammi che sono venuti meno”.
Campo Dall’Orto: “Per il contesto che stiamo affrontando, io non ho mai detto che l’auditel sia negativo, ma non può essere il fine. Aiuta a valutare. Ad esempio, l’operazione fatta sulla Scala, fatta con coraggio, ha mostrato che 12 milioni di persone hanno visto quell’evento per 40 minuti ciascuno. E’ importante sapere come vadano gli ascolti. E’ sbagliato, come soggetto pubblico, avere quello come fine: non è utile a portare avanti la missione che abbiamo. Per esempio, la nostra attenzione all’alimentazione deve essere basata sui dati scientifici, non sull’ascolto, perché altrimenti rischi di prendere strade sbagliate. E’ difficile, e in alcuni ambiti la strada è ancora lunga.
Grasso: “Mi scusi, volevo chiedere a Campo Dall’Ortose quando hanno chiuso il povero Semprini gli aveva fatto questo discorso dell’auditel…”.
Campo Dall’Orto: “Rispondo facilmente. Noi abbiamo avuto due programmi in autunno, Semprini e Nemo, che hanno fatto gli stessi risultati. Non ci siamo fatti guidare dall’auditel nella valutazione dei programmi. Ci siamo fatti guidar dalle analisi qualitative , che sono importanti per noi, che mettevano i due programmi in posizioni antitetiche: una di una promessa mancata, l’altra di una promessa riuscita. Credo che in ogni caso, se gli ascolti non sono alti ma si crede nel progetto, lo si porta avanti, al contrario della televisione commerciale”.
Cerasa: “Professor Grasso, ma la tv italiana è all’altezza delle grandi sfide del futuro?”.
Grasso: “Prendendola come provocazione, non è all’altezza. Partirei dalla Rai. Credo che il problema grosso della Rai non sia editoriale, ma è un problema comune a Mediaset cioè è una tv generalista che, come diceva Campo Dall’Orto, deve fare programmi che si rivolgano al maggior pubblico possibile: questa è la definizione stessa di TV generalista. Poi ci possono essere programmi che si rivolgono al pubblico in maniera più becera, altri in maniera più elegante, sono questioni di gusto, di scelta editoriale. Il vero problema della Rai e in parte anche di Mediaset è un problema di tipo industriale. Quando sento parlare della Rai, c’è questa retorica sulla professionalità della Rai, sull’orgoglio e sulle sue capacità. Tutto vero. La Rai è piena di buoni professionisti, non ha una buona cultura aziendale e questo è il problema, non è all’altezza dei tempi. Se voi vedete certi programmi anche di largo consumo, moto ben fatti, la Rai non è più in grado di farli. No ha più la cultura aziendale per farli. Un’impresa moderna dovrebbe essere più snella, limitarsi a produrre l’informazione, le cose semplici ma per il resto non mi pare abbia il know how per fare cose importanti. In parte anche Mediaset. Non parlo dei singoli professionisti, ma dell’insieme, quando un programma scorre bene si notano sempre le cose prodotte fuori. Sono convinto che il problema della Rai, del servizio pubblico, sia di tipo industriale più che editoriale. Se non viene affrontato in fretta, gran parte del canone andrà a alimentare cose che non si traducono in esperienza editoriale”.
Campo Dall’Orto: “Non è in contraddizione con la Rai questo percorso, che abbiamo fatto per anni a Mediaset, di integrazione verticale. Oggi raggiunge i suoi obiettivi chi ha una struttura leggera, che offre maggiori flessibilità. Il modello creativo, nella competizione globale, è migliore: non ci sono dubbi. In molti ambiti la struttura è già decentrata. In altri ambiti questo non è possibile. Questa è una sfida importantissima, è quasi un problema logico piuttosto che industriale. Con quello che sta arrivando, nell’ambito dell’innovazione tecnologica, non si può non affrontare questa sfida”.
Confalonieri: “Sì, ma è anche una questione di costi. Negli ultimi anni, noi tutti, abbiamo anche perso il 40 per cento del fatturato. Oggi lo dico ma non lo vorrei dire, ma quasi quasi i programmi li fanno i contabili. Mancano i soldi, purtroppo. Un tempo facevamo cose migliori. Dobbiamo fare i conti con questi signori, queste corazzate velocissime. E’ di questi giorni la notizia di Sky, che fattura più di noi, sposta 500 persone. Sono questi over the top che ci levano molti soldi, e noi dobbiamo fare i conti…”.
Grasso: “…per chiudere, mi sembra che la grande sfida, se si vuole credere nel concetto di servizio pubblico, è enorme, cioè quando sento parlare delle sedi regionali, di questa struttura nata negli anni ‘60, mi chiedo dove trovi la Rai la forza per stare sul mercato, perché se le risorse vanno per mantenere questo appartato nato in anni passati, che non ha più senso oggi mi chiedo quanto sia possibile vincere questa sfida, che ripeto, è moto più logica industriale che non editoriale”.
Campo Dall’Orto: “Penso che sia un punto giustissimo, questo. Io sto provando a lavorare sulla trasformazione, e qui entra il tema degli investimenti sull’informazione. Bisogna capire quanto velocemente e quanto è trasformabile dal punto di vista delle competenze che ci troviamo ad avere. Come necessità ci sono delle forme diverse da quelle che abbiamo usato in passato, e quindi è chiaro che bisogna pescare competenze anche fuori, ma viste le nostre dimensioni la nostra priorità è riconvertire le competenze interne. Io penso che l’unico modo per provare a vincere questa sfida sia farsi le domande giuste e non c’è dubbio che mettere al centro l’individuo, come fanno Google e Facebook, sia una priorità. Ovviamente il servizio pubblico lo deve fare in un altro modo, deve rispondere alla logica di quanto valore dei programmi arrivi a casa. Credo che essendo impegnati in questa sfida, si deve avere un orizzonte chiaro. Anche perché non credo che esista una seconda via perché la seconda sarebbe provare a rimanere a fare l’orologio sociale. Se rimaniamo animali sociali, penso che il tg1 delle 20 rimarrà un appuntamento per molto tempo. Ma se vogliamo diventare universali, a questo mondo ne vanno aggiunti molti altri”.
Cerasa: “E Marinella Soldi guarda mai Rai e Mediaset?”.
Soldi: “Ehm… io guardo alcune cose che mi piacciono sulle reti generaliste, come Montalbano, di cui sono una fan. Alcune cose le guardo, come pure Maria De Filippi, poi alcuni appuntamenti sportivi, come le olimpiadi”.
Cerasa: “Ci spieghi il futuro di Discovery, invece, In questa fase è in corso un processo di consolidamento o di espansione che magari potrebbe portare da acquistare altre reti?”.
Soldi: “Quello che mi viene in mente, ascoltando Confalonieri e il Prof. Campo Dall’orto, è la necessità di trasformarsi, di cambiare: la necessità di affrontare il cambiamento riallocando le risorse. E’ un tema nostro; noi che abbiamo un nome straniero o una prima lingua che non è l’italiano, non ne siamo per questo immuni. La trasformazione fa parte delle responsabilità di un capo d’azienda in qualsiasi settore, specialmente negli ultimi anni. E questo vuol dire – sono d’accordissimo con Antonio – lavorare moltissimo sulla cultura e partire sempre dagli individui. Poi ci sono alcune aziende in cui questo si può fare più facilmente e altre aziende, altri paesi, altri sistemi dove è più difficile. Io penso che questa sia una nostra responsabilità, come individui: avere curiosità. Ripeto, ancora d’accordo con Antonio, non so cosa sarà il mondo tra due anni ma bisogna porsi le domande giuste. E partire sempre dal consumatore; porsi la domanda sul consumatore: che cosa vuole…”.
Cerasa: “E cosa vuole oggi il consumatore italiano? Soprattutto dal punto di vista dei contenuti televisivi?”.
Soldi: “Le risponderei così. Esiste un contenuto buono se intercetta a una passione. Questo vuol dire che ci sono dei palinsesti, o delle playlist, che possono essere, per esempio, la squadra del cuore o altri tipi di hobby. Ecco, quel tipo di contenuto magari è molto specifico, non piace a tutti, ma a chi piace, ne è quasi drogato, è un fan sfegatato. E poi ci sono i grandi eventi: quel contenuto che devi a tutti i costi vedere. Può essere The Crowns su Netflix o Montalbano sulla Rai o alcune fiction sui canali Mediaset. Cioè quei contenuti – oltre, chiaramente, agli eventi live a cui si fa fatica a rinunciare – che piacciono a tanti. Tutto ciò che è in mezzo a queste due categorie, anche ahimè tantissime cose che noi come industria produciamo, sparisce, non conta: è una distrazione. La nostra capacità deve essere quella di riuscire a posizionarci in questi due ambiti, non esclusivamente da una parte o dall’altra e poi portarli in quel device che il consumatore vuole. La scorsa settimana eravamo ad un raduno annuale di tutte le prime linee internazionali e i nostri colleghi dell’Asia ci hanno mostrato alcune ricerche sui Millenials; il consumo mediatico in una giornata – cosa che è abbastanza ovvia ma raramente visibile schematizzata – riguarda momenti di contenuto: content moments e non di televisione o di un flusso unidirezionale. Cioè di quante volte, durante la giornata, ognuno ha la possibilità di guardare video e questo è radicalmente diverso rispetto a cinque o dieci anni fa”.
Il dibattito sul futuro della tv si è tenuto al Teatro Parenti di Milano lunedì 30 gennaio
Cerasa: “Presidente Confalonieri, parlando di futuro, non dei prossimi due anni ma dei prossimi due mesi, che problema ha Mediaset con Vivendi?”.
Confalonieri: “Cerasa, mi consenta di avvalermi della facoltà di non rispondere”.
Cerasa: “No! Le formulo la domanda in maniera diversa. C’è soltanto quella come strada per il futuro di Mediaset o ci sono anche altre strade?”.
Confalonieri: “Speriamo che non sia solo questa e che ce ne siano altre…”.
Cerasa: “Presidente, andiamo avanti allora… Siamo partiti dalle fake news per arrivare al processo all’informazione. Evidentemente, se c’è una grande proliferazione di fake news è anche perché gli utenti considerano quella post-verità una verità. Dunque, c’è un problema legato anche al modo in cui si fa informazione. Dove nasce il problema secondo lei?”.
Confalonieri: “Sarà che io sono un po’ troppo campanilista, ma non trovo che siano così fatti male i tg, oggi. Non trovo che la nostra informazione e le nostre news siano così uguali… Io credo che quello che manca nei Tg, come nei giornali di carta stampata, nei magazine, è la politica estera. Siamo scarsi sulla politica estera perché? Se guardi la BBC hanno ancora il Commonwealth in testa. Adesso in America: Trump, Putin…rifanno Jalta; somiglia molto”.
Cerasa: “Ma a lei piace Trump?”.
Confalonieri: “No, non mi piace. Però trovo che le critiche, le manifestazioni siano un po’ esagerate. E per quello che conosco io dell’America: dalla democrazia di Tocqueville i checks and balances lì funzionano. Almeno me lo auguro. Le dicevo. La nostra informazione è una buona informazione… forse manca la politica estera. Noi siamo veramente molto provinciali in questo senso, però siamo legati all’audience. Se un giornale fa troppa politica estera non lo comprano; se un telegiornale dà notizie su Trump, lo stesso. L’Africa non esiste, l’Asia soltanto se succede qualche disgrazia. Siamo un po’ politici. Lo sono tutti i nostri giornalisti”.
Cerasa: “Direttore Campo Dall’Orto, un’ultima cosa: si parlava di informazione e vorrei capire quale sarà il futuro dell’informazione Rai. Ci sarà un successore di Verdelli, che come sapete si è dimesso qualche tempo fa da direttore editoriale? Ha in mente una qualche strategia precisa in questo ambito nei prossimi mesi?”.
Campo Dall’Orto: “L’informazione per noi è la grande sfida, la grande opportunità; diceva bene Aldo Grasso che una delle nostre caratteristiche è la dimensione, che in questa fase è una forza, se usata bene. Ed è la ragione per cui credo che gli altri soggetti temano la Rai, quando si muove bene. Nell’ambito informativo noi dobbiamo usare il tempo che abbiamo per trasformarci. I telegiornali, secondo me, sono tendenzialmente fatti bene. Noi siamo ricchi di contenuti; stiamo sperimentando anche ulteriori modi di attuarli. Non dobbiamo aver paura di osare. Nell’informazione digitale, siamo il grande assente: siamo forti su altri fronti e stiamo lavorando per entrarvi in maniera forte. Una sfida che io trovo affascinante, aldilà delle fake news, è se la rete abbia una propria natura intrinseca che favorisce l’irrazionalità. Questa è una domanda aperta. Io credo e spero di no. Credo solo che stiamo vivendo una fase di trasformazione. Ma a questa domanda il servizio pubblico deve rispondere in maniera ferma, non relativizzandosi rispetto alla rete. Ieri sera ho visto un po’ di fake news dell’anno scorso, come il Papa che aveva scritto l’endorsement su Trump. Due siti avevano scritto “False” e altri due le riportavano ancora come notizie vere. Per quanto riguarda il resto, ho preso il progetto di Carlo Verdelli in corsa, quindi arriverò sino alla fine con le persone che hanno lavorato con lui. La volontà è quella di completare quel lavoro già iniziato”.
Cerasa: … “Completare significa utilizzare lo stesso progetto e portarlo avanti così come è nato o facendo anche delle modifiche?”.
Campo Dall’Orto: “Ho presentato al Cdm un progetto che ha preso alcuni elementi chiave della proposta di Carlo Verdelli e poi ho aggiunto altre cose che lo mettessero in una prospettiva più ampia. Abbiamo in ballo un grande investimento sull’informazione digitale, ma dobbiamo pensare anche ad altro. Per esempio: che tipo di racconto vogliono fare i telegiornalisti? Io credo moltissimo alla polarizzazione ma non credo alla decadenza della televisione. Perderà un punto e mezzo l’anno per i prossimi due anni… ma ciò non significa che i contenuti di maggior interesse collettivo perderanno consenso”.
Cerasa: “Per chiudere, che cosa ha funzionato in questo suo primo anno e mezzo in Rai e cosa non ha funzionato?”.
Campo Dall’Orto: “Sono l’ultimo a poter giudicare il mio lavoro… Credo che ho portato – ma soprattutto abbiamo, perché lavoriamo in gruppo – una cultura nuova: innovare e rischiare. Quello che è più complesso, sono i nodi industriali”.
Grasso: “Anch’io sono convinto di questo: penso che questa separazione generazionale tra televisione generalista e le altre tv sarà sempre più netta: di questo ne sono sicuro. E, come succede per la carta stampata, quell’1 e mezzo che si perde all’anno di share spesso coincide anche con i necrologi. La paura che mi fa la nuova televisione è che temo che sarà sempre di più regolata dagli algoritmi. Ho paura che entriamo in un regime di algocrazia. Ho paura di una televisione regolata da quei cervelloni: temo che non ci sia più quel coraggio di fare quelle scelte editoriali nuove ed eversive, che sotto le spoglie della novità ci sia invece un vecchio conformismo”.
Confalonieri:” La profilazione è uno dei motivi per cui domani – cosa che non era consentita dalla legge Mammì – faranno spot secondo i gusti dei propri clienti. E subito dopo il commercio. La televisione generalista ha ancora senso commercialmente ma siamo così frammentati che non c’è più spazio per altro”.
Cerasa: “In conclusione, Prof. Grasso, che cosa non funziona oggi nei programmi che si occupano d’informazione ma anche di formare l’opinione pubblica?”.
Grasso: In questo strano mestiere che faccio ogni giorno, alle volte mi pongo dei paletti e mi dico: ci saranno delle svolte quando questi personaggi spariranno. Uno era Maurizio Costanzo (ma vedo che ritorna) e l’altro è Bruno Vespa. Non per la persona che è, ma per quello che rappresenta. Ci sono delle ritualità, attraverso cui passa l’informazione, che mi paiono un po’ vecchie, che vanno rinnovate. Quello che non mi piace dei telegiornali in generale, è proprio quel rito del Tg che è sempre lo stesso, qualunque cosa succeda. E’ come assistere ogni sera a una piccola messa laica che non ti lascia nessun contenuto particolare ma ti lascia una sensazione di tranquillità, di rassicurazione. Poi, capisco che ci siano ragioni economiche, ma l’informazione non passa attraverso i talk. Attraverso i talk passano le chiacchiere, le opinioni… perché non c’è nessuno che ti dice “questa cosa che hai detto è profondamente sbagliata, nei fatti” e quindi uno vale l’altro. A partire dal servizio pubblico, non tenendo conto degli ascolti, mi piacerebbe che ci fosse un’informazione un po’ più approfondita, più seria e fuori dalle ritualità attuali. Mi sembra che manchino, non tanto i contenuti, ma proprio le modalità con cui queste informazioni sono riportate. La storia della post-verità è vecchia come il mondo. Affrontiamo questo problema, soltanto perché attraverso internet, è diminuito il costo di produzione delle menzogne. Prima era un po’ più difficile: dovevi scrivere su un giornale o entrare in una televisione. Adesso, a costo zero, riesci a inquinare tutto; ma il problema esiste da sempre. C’è un meraviglioso aforisma di Karl Kraus che, a proposito della stampa, diceva: 'Nero su bianco, questo è il modo attuale con cui si presenta la menzogna' e parlava dei giornali”.