L'origine del peccato
Il disastro di Alitalia è un malore collettivo. Al centro c’è il rifiuto di stare al gioco della globalizzazione
L’ottanta per cento di “no” del personale di volo Alitalia, decisivo per affossare l’accordo sindacale salva-azienda, può sorprendere soltanto chi non abbia seguito da vicino le vicende sindacali della nostra compagnia di bandiera negli ultimi decenni. Ricordo solo un episodio emblematico: l’epidemia di emicrania che il 2 giugno 2003 colpì improvvisamente un migliaio di assistenti di volo paralizzando gli aerei di Alitalia. Quel malore collettivo nasceva dal fatto che la direzione aziendale intendeva ridurre di uno il numero degli assistenti in cabina, utilizzando un modello organizzativo già da tempo adottato dalle altre compagnie maggiori; ma per gli assistenti di volo della nostra compagnia di bandiera quella misura costituiva un attentato ai diritti fondamentali loro e dei viaggiatori, che giustificava una violazione plateale della regola del preavviso per la proclamazione di uno sciopero nel settore dei trasporti. Quell’episodio non soltanto non ebbe alcun seguito sul piano disciplinare; ma non indusse neppure lo stato a smettere di coprire le perdite di Alitalia, come stava facendo ormai da più di un decennio. Oggi al posto dell’epidemia di emicrania c’è la valanga dei “no” all’accordo per salvare l’azienda; ma la logica è ancora quella: se i conti aziendali non tornano, ci pensi lo stato, come ha sempre fatto. E, se necessario, si riprenda la compagnia. Come se si potesse fare a meno di un vero imprenditore del settore: perché lo stato, ovviamente, non è un vettore aereo.
La settimana prossima celebreremo – si fa per dire – il settantesimo anniversario del primo volo della compagnia Alitalia Aerolinee Italiane Internazionali, che il 5 maggio 1947 decollò da Torino per Roma e Catania.
La neonata compagnia operava al suo nascere, e avrebbe continuato per un quarantennio a operare, nella posizione sostanziale di monopolista sulle tratte nazionali; ciò che le consentiva di lucrare una cospicua rendita a spese dei viaggiatori. Quando, insieme al suo business, negli anni 50 e 60 si svilupparono anche le organizzazioni sindacali dei dipendenti, queste, come era ovvio che avvenisse, si dedicarono con successo a rivendicare e poi difendere la spartizione della rendita monopolistica tra impresa e dipendenti: i quali presero a godere di condizioni di lavoro senza eguali nel panorama nazionale. La festa finì con la progressiva liberalizzazione del trasporto aereo in Europa, tra gli anni 80 e 90 – in ritardo di un decennio rispetto all’America –, che consentì anche qui l’arrivo delle compagnie low cost. Le compagnie aeree tradizionali che non seppero attuare i mutamenti necessari per reggere l’urto di questa nuova concorrenza furono costrette a chiudere, o a farsi assorbire da compagnie più efficienti. Se questo non è accaduto nel caso di Alitalia, è perché lo stato ne ha sempre coperto generosamente le perdite, non soltanto fino a quando ne ha posseduto il capitale, ma anche dopo il 2008, quando essa è stata privatizzata. Col risultato che il suo management e i suoi sindacati hanno continuato per un quarto di secolo a comportarsi sul presupposto che in un modo o nell’altro Pantalone avrebbe comunque provveduto a riparare i danni prodotti dal nuovo, sciagurato, regime di libera concorrenza.
L’ultima rivendicazione nei confronti dello stato è che esso vieti agli aeroporti di piccole dimensioni di offrire sovvenzioni alle compagnie low cost per attirarle. Nessuno si chiede perché non sia neppure ipotizzabile che anche Alitalia si ponga in grado di candidarsi a beneficiare di quelle sovvenzioni.
Quando si parla delle responsabilità dei sindacati è doveroso distinguere quelle dei sindacati aderenti alle confederazioni maggiori, Cgil, Cisl e Uil, che se non altro l’ipotesi di accordo salva-azienda nei giorni scorsi l’hanno sottoscritta, da quelle degli autonomi, soprattutto Cub Trasporti e AlCobas, che invece l’hanno rifiutata. Ma anche i confederali hanno alcune responsabilità strategiche gravi. Non mi riferisco soltanto a quella di avere sempre rifiutato, più o meno apertamente, una norma che condizionasse la possibilità dello sciopero nel settore dei trasporti pubblici alla rappresentatività maggioritaria dei sindacati che lo proclamano o all’approvazione da parte della maggior parte dei dipendenti dell’azienda; col risultato di aver assicurato alle organizzazioni minoritarie più aggressive la disponibilità di un’arma formidabile, che ne ha aumentato il peso nel settore in misura del tutto sproporzionata. Nel caso di Alitalia, Cgil, Cisl e Uil hanno la responsabilità specifica di avere rifiutato, nel marzo 2008, l’accordo che avrebbe portato all’incorporazione di Alitalia nel gruppo Air France-Klm: il loro rifiuto venne ben prima di quello di Silvio Berlusconi, che comunque all’epoca doveva attendere ancora qualche mese per tornare a essere presidente del Consiglio.
Il negoziato del 2008
Quando, chiusa la trattativa con Air France-Klm, nell’aprile 2008 si aprì quella con la neonata Compagnia aerea italiana, uno dei segretari confederali nazionali venne fuori con una battuta che la diceva lunga sui limiti della cultura sindacale dominante nel nostro paese: “Finalmente dall’altra parte del tavolo abbiamo qualcuno che parla italiano!”. Dopo un ventennio di sviluppo impetuoso della globalizzazione, neppure Cgil, Cisl e Uil avevano ancora capito che l’Italia è solo l’uno per cento del mondo, e che il dare pregiudizialmente la preferenza all’imprenditore indigeno significa precludersi la possibilità di scelta del concorrente migliore fra il restante 99 per cento degli imprenditori. Il risultato fu che Cgil, Cisl e Uil respinsero l’offerta avanzata dal più grande vettore aereo del mondo, preferendogli una “cordata” di imprenditori dei quali nessuno aveva mai fatto volare un aereo, solo perché tutti italianissimi. Ancora oggi, del resto, se si escludono alcuni comparti della Cisl, le nostre confederazioni sindacali maggiori sono convinte che la globalizzazione abbia per i lavoratori italiani soltanto l’effetto negativo di metterli in concorrenza con i lavoratori di tutto il resto del mondo. Non hanno ancora messo a fuoco l’effetto positivo che la globalizzazione può produrre per i lavoratori, se essi e i loro sindacati sanno sfruttarlo a dovere: la possibilità di ingaggiare quelli, tra gli imprenditori più competenti e affidabili di tutto il resto del mondo, che meglio sanno valorizzare il loro lavoro.
(1. continua)