Caro Onida
Una Costituzione dovrebbe ispirarsi a princìpi condivisi da tutti. I diritti sociali, invece, da sempre dividono
Ha ragione Valerio Onida quando nell’articolo “La Costituzione garantisce i diritti sociali dei cittadini (Corriere della Sera del 22 luglio), commentando l’editoriale di Angelo Panebianco, “La Carta costituzionale e le difficili riforme italiane” (21 luglio), scrive che la discussione sulla proposta di Flat tax avanzata dall’Istituto Bruno Leoni mette in gioco “qualcosa di più” di una semplice legge. Sì, è proprio così e forse è arrivato – dopo 70 anni! – il momento di ripensare la nostra Magna Carta ma nel senso indicato dallo scienziato politico bolognese che mette in guardia dal porre mano alla seconda parte del testo senza averne riveduto e corretto la prima parte. La nostra, rileva Panebianco, “era una Costituzione adatta a qualunque uso. Servì ad ancorare l’Italia al mondo occidentale dopo la vittoria democristiana sui socialcomunisti nelle elezioni del 18 aprile 1948 ma avrebbe potuto diventare – senza bisogno di revisioni – la carta fondamentale di una “democrazia popolare” se i socialcomunisti avessero vinto”.
Onida, un giurista estraneo all’universo liberale (ma non è una colpa), ovviamente non è d’accordo. Per lui, la nostra Costituzione non è solo antifascista ma si propone di “superare quella che Giorgio La Pira chiamava ‘la Costituzione del 1789’ cioè un liberalismo che garantisce le libertà ‘negative’ ma ignora i diritti sociali e i compiti di giustizia, non solo di ordine dello stato” ovvero ignora l’eguaglianza non solo “formale della ‘legge è eguale per tutti’” ma anche quella “sostanziale”. Il costituzionalismo progressista, invece, intende assegnare alla Repubblica il compito di rimuovere “gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza”. A quanti ripropongono stancamente questo topos diventato il senso comune degli intellettuali ormai gramscianamente egemoni nelle scuole, nei giornali, nelle tv, non si obietta mai il coté giacobino e il carico di prepotenza e di intolleranza insito nel martellante richiamo allo spirito dei Padri costituenti.
Mi spiego, cercando di farlo con pacatezza. Una Costituzione dovrebbe ispirarsi a princìpi condivisi da tutto il popolo e, almeno potenzialmente, iscritti nei suoi costumi e nella sua etica pubblica. Le libertà civili e politiche – che quel grande luminare del diritto pubblico che era Giorgio La Pira riconosceva (bontà sua) ma voleva “superare” –, ad esempio, sono sacre e indisponibili per tutte le famiglie ideologiche di un sistema politico democratico, ed è per questo che debbono stare a fondamento della Costituzione di un paese uscito da una dittatura. I diritti sociali, invece, piaccia o non piaccia, dividono profondamente gli animi: o, meglio, a dividerli è il fatto che debbano essere costituzionalizzati e non semplicemente oggetto di leggi ordinarie (Friedrich A. Hayek, com’è noto, riteneva che lo stato dovesse provvedere ai bisogni di quanti “non ce la facevano”). I diritti sociali, pertanto, fanno parte – e legittimamente – del programma di un partito, sono la filosofia di una famiglia ideologica, ma non possono incatenare al dettato costituzionale una buona metà del paese, che, ad esempio, riconosce la proprietà – come la libertà del resto – indipendentemente dalla sua “funzione sociale”. Il popolo moderato – chiamiamolo così – deve accettare anche le forme più avanzate di welfare se proposte da una maggioranza elettorale di sinistra ma non può impegnarsi a conservarle, qualora al governo vadano poi i suoi partiti. Questa è la democrazia, bellezza! E la democrazia conta più della “Costituzione nata dalla Resistenza”, più delle glosse di Valerio Onida o del fu Stefano Rodotà, più dei sostenitori dell’interpretazione progressiva del diritto. La costituzionalizzazione dei “diritti sociali”, in realtà, sembra ridursi a un’assicurazione a vita volta a garantire a una classe dirigente – qualunque sia l’esito delle elezioni – di “tenere le mani” sulla Repubblica, in modo da poter ottenere un domani dai tribunali quello che non ottiene più dalle urne.
tra debito e crescita