I calcoli di Putin in Siria, il futuro di Assad e il ruolo degli occidentali. Parlano alcuni esperti
Milano. Perché Vladimir Putin si ritira dalla Siria? La notizia ha sorpreso tutti, alleati e non alleati della Russia, così abbiamo chiesto ad alcuni esperti di provare a spiegare le motivazioni di questa decisione, e le sue conseguenze. C’è chi pensa che, uscendo dalle missioni militari in Siria, Putin voglia mettere pressione sul dittatore siriano Bashar el Assad, e c’è chi pensa che invece, dopo sei mesi di campagna russa a suo sostegno, Assad sia molto forte, pressoché inamovibile, in grado di resistere da solo. Intanto però Vladimir Putin ha raggiunto un obiettivo per lui decisivo: diventare un interlocutore al pari degli altri, degli americani, degli europei, uscire dall’isolamento causato dalla crisi ucraina e tornare centrale su molti dossier rilevanti. “Ritirarsi adesso è una ‘win-win solution’ per Putin – dice al Foglio Matthew Kaminski, direttore di Politico Europe – E’ intervenuto sei mesi fa rovesciando i calcoli internazionali, ha condotto una campagna militare che non ha incontrato nessuno degli ostacoli tipici delle missioni a guida occidentale nei media o nell’opinione pubblica, ha chiesto se i target colpiti fossero quelli prefissati, se ci fosse una minaccia alla sicurezza nazionale o le cose che vengono chieste ai nostri leader. Anzi, Putin ha distolto l’attenzione dai problemi economici, dalla sua incapacità di riformare il regime, e ha rilanciato la potenza russa nel mondo. Ora che Assad è sufficientemente forte, grazie alla copertura di Mosca degli ultimi sei mesi, il capo del Cremlino può ritirarsi e giocare sul tavolo della diplomazia alla pari degli altri”. Secondo Kaminski il rais siriano è a questo punto più al sicuro – “davvero qualcuno adesso lo caccia?” – ma non tutti sono d’accordo con questa analisi.
Il futuro di Assad è da sempre uno dei problemi principali della gestione della crisi siriana, e anche ora che i suoi sostenitori russi si ritirano, è sempre di lui che si continua a discutere. Roland Lombardi, analista presso il JFC-Conseil e ricercatore presso l’Institut de recherches et d’études sur le monde arabe et musulman (Iremam) di Parigi, spiega che con tutta probabilità “i consiglieri militari russi resteranno, le forze speciali resteranno per mantenere in sicurezza la ‘Siria utile’ di Assad. Si tratta di una mossa simbolica, combacia con l’inizio dei negoziati a Ginevra sulla situazione siriana: è un gesto forte verso la comunità internazionale e allo stesso tempo un tentativo di mettere pressione su Assad”. Anche Andrew Tabler, dall’altra parte dell’Atlantico, dice che Putin vuole mettere pressione sul regime siriano “e pure sugli Stati Uniti”. Tabler è esperto di Siria e di politiche americane in medio oriente presso il Washington Institute, e sostiene che “il peso militare in Siria ora ritorna sulle spalle di Assad, il quale dovrà fare concessioni ai gruppi siriani che finora ha escluso per riprendere il controllo del territorio”. Ma se i gruppi di opposizione di Assad vedono il dittatore senza più il suo sostenitore russo non penseranno che, piuttosto che negoziare, sia meglio resistere e attaccare? Certamente “la decisione di Putin potrebbe rinvigorire i ribelli e soprattutto i jihadisti che vedono nel ritiro russo un calo dei bombardamenti – dice Lombardi – Tuttavia, soprattutto sul campo dei negoziati, potrebbero esserci delle conseguenze positive, Assad potrebbe accettare più compromessi nelle trattative”.
Se per Kaminski, Putin esce da questi sei mesi di guerra in Siria più forte, “back in the game”, come dice lui, “dopo aver screditato il ruolo degli americani”, per Lombardi invece oggi il capo del Cremlino non è più il “maître du jeu” nel conflitto siriano. I negoziati a Ginevra devono iniziare, la pausa nei bombardamenti garantita dal cessate il fuoco ha ridato slancio a una trattativa che di fatto non è mai decollata, nonostante gli annunci e le promesse. Che succede ora? Molti esperti pensano che la Siria vada verso una partizione territoriale, anche Lombardi lo dice: “La soluzione federale è la più probabile, con un’autonomia più grande nel Kurdistan siriano, l’ovest della Siria nelle mani del regime di Assad, e poi negoziati caso per caso”. Le partizioni hanno sempre avuto molta risonanza nei consessi diplomatici – anche in Iraq, durante la campagna militare occidentale nella prima decade degli anni Duemila, si era più volte parlato di una tripartizione del paese: sciiti al sud, sunniti al centro, curdi al nord – ma incontrano difficoltà enormi sul campo, soprattutto dopo cinque anni di guerra civile e con lo Stato islamico che occupa l’est della Siria. Il dialogo, che non si sa in che termini sia, tra russi e americani potrebbe portare a una evoluzione, mentre gli europei guardano impauriti e divisi quel che accade. La Francia non conta più nulla, dice Lombardi, mentre Kaminski riporta chiacchierate avute a Berlino in cui ha sentito molte sue fonti dire che la presenza russa in Siria ha fatto esplodere la questione dei migranti, che divide e dividerà l’Europa per molto tempo. “Anche sulle sanzioni alla Russia, che devono essere rimosse o rinnovate a giugno, ci saranno nuove pressioni, l’Italia ne fa già molte per esempio, e la divisione è inevitabile”.
Le conseguenze della mossa russa sono ancora tutte da valutare, insomma, ma è curioso che nelle conversazioni con gli esperti non venga quasi mai citato lo Stato islamico. Forse perché, come scrive il Wall Street Journal, la lotta al Califfato non è mai stata la priorità di Mosca. Non quando ha deciso di entrare in guerra, non quando ha deciso di uscirne.
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