Svolta nella guerra
L'asse Russia-Siria-Iran si prende Aleppo contro ribelli orfani di sponsor
La parità di forze non c’è più, dopo duemila bombardamenti aerei in due settimane gli assadisti dilagano
Roma. Fino a ieri la guerra civile in Siria si basava su un grande assunto: nessuna tra le fazioni in lotta è abbastanza forte da prevalere sulle altre. Da due giorni questo assunto non vale più nella seconda città del paese, Aleppo, spaccata a metà dall’estate 2012 tra le forze che stanno con il presidente Bashar el Assad e i gruppi anti Assad. Domenica le difese dei ribelli sono collassate e i miliziani governativi hanno conquistato circa il 40 per cento dell’eclave di Aleppo est, che era sempre rimasta fuori dal controllo di Assad.
Immaginate l’enclave come se avesse la sagoma di un numero otto, oppure di una clessidra, con due aree più panciute collegate da una vita snella. Ecco, i governativi sono avanzati a tenaglia, da est e da ovest, nella zona più stretta per tagliare e prendere la parte superiore dell’otto e per loro era una manovra facile perché da mesi ormai circondavano tutta l’enclave, aspettando soltanto il momento più adatto per stringere. Aleppo in questi giorni è il fronte più importante della Siria, perché quello che succede laggiù avrà conseguenze sul resto della guerra altrove nel paese – e gli altri fronti, per esempio a Damasco, a nord di Hama e nel sud, vicino al confine giordano, in questo momento sono dormienti. Come mai i ribelli di Aleppo perdono adesso, dopo quattro anni di resistenza in condizioni difficili? Il fattore più importante è senz’altro la presenza degli aerei russi – arrivati in Siria nel settembre 2015 e poi “ritirati” ma non per davvero dopo l’annuncio di “fine missione” dato da Vladimir Putin nel marzo di quest’anno – che assieme a quelli siriani conducono una campagna spietata di bombardamenti su Aleppo est. In quest’ultima offensiva cominciata dal governo siriano due settimane fa ci sono già stati circa duemila bombardamenti aerei, che hanno fatto non meno di cinquecento morti e migliaia di feriti soprattutto tra i civili, e non è che la continuazione di una campagna aerea congiunta che va avanti dal 2015. Il vecchio detto militare che diceva “L’artiglieria conquista, la fanteria occupa” qui andrebbe aggiornato così: “I bombardieri depopolano e cacciano civili e gruppi armati, i soldati a terra dichiarano vittoria per ko tecnico dell’avversario”.
Le forze anti Assad rispondono e bombardano Aleppo ovest usando mortai e razzi, ma tra i due lati del fronte c’è sproporzione nella capacità di infliggere danni. A lungo termine chi ha una superiorità aerea così schiacciante prevale. Altri due fattori che spiegano la vittoria riguardano il tempo scelto per l’offensiva: Aleppo est non poteva resistere ancora a lungo perché in questo momento è in balìa di una tempesta perfetta, che include l’arrivo dell’inverno – impossibile da sostenere per una enclave che è già sotto assedio da 95 giorni e che ha scorte di viveri per meno di una settimana – e la transizione politica in America tra l’Amministrazione Obama e l’Amministrazione Trump. Obama negli ultimi mesi aveva dato l’impressione di avere abdicato sul dossier siriano e di non avere più l’intenzione di salvare la situazione o di avere i mezzi per esercitare qualche tipo di influenza; Trump ha detto in campagna elettorale di stare dalla parte di Putin e di Assad. In ogni caso, questo periodo di transizione corrisponde in Siria a un vuoto in cui ciascuno è libero di portare avanti i propri piani o – come scrive l’inviato di Buzzfeed in medio oriente, Borzou Daragahi – o di provare a prendere quanto più territorio possibile.
Resta ancora la metà inferiore della clessidra, ma senza rifornimenti dall’esterno seguirà la sorte della zona appena perduta – anche se non si può dire quando: potrebbero volerci giorni, o mesi. Ieri al Parlamento inglese si parlava di lanci aerei di viveri e medicinali per mitigare le difficoltà della popolazione assediata, di cui non si conosce con precisione il numero, si dice fino a duecentomila. Ma è un’opzione remota, perché pone questioni politiche troppo ardue. Una su tutte: volare con lentezza e a bassa quota sopra Aleppo vuol dire sfidare il controllo dello spazio aereo esercitato dai russi.
Un’altra questione è la sostenibilità davanti all’opinione pubblica inglese di un ponte aereo per Aleppo, che finirebbe per aiutare e per allungare la vita anche ai gruppi armati che sono legati ad al Qaida (circa un dieci per cento dei combattenti, secondo i dati offerti a settembre da Staffan de Mistura, inviato speciale delle Nazioni Unite). L’operazione per riprendere il controllo di tutta Aleppo è il trionfo della joint venture Russia-Iran-Siria. Quando si sente o si legge che “l’esercito siriano avanza”, in realtà è ormai soltanto un’espressione di comodo per indicare una forza combattente dove gli elementi migliori sono gli iraniani delle Guardie rivoluzionarie – che la settimana scorsa hanno annunciato di avere raggiunto quota mille caduti in combattimento in Siria – e i libanesi di Hezbollah – che, sempre la settimana scorsa, per la prima volta, hanno organizzato un incontro con gli ufficiali russi ad Aleppo per coordinare la battaglia urbana. Inoltre, mano a mano che in Iraq la campagna contro lo Stato islamico progredisce, si liberano le risorse delle milizie sciite irachene che possono spostarsi a fare la guerra a fianco di Assad, loro alleato naturale per la vicinanza comune con l’Iran.
I due reparti siriani più efficienti e acclamati – la “Forza Tigre” e “I Falchi del deserto” – non fanno parte delle normali unità dell’esercito e assomigliano più a due milizie di fedelissimi di Assad. Pur nella loro eterogeneità, tutte queste unità si muovono con compattezza sotto la copertura dei bombardamenti indiscriminati dell’aviazione russa e dei jet e degli elicotteri siriani – questi ultimi sono accusati avere sganciato barili bomba arricchiti con il cloro, che aggiunge zaffate tossiche all’esplosione – e stanno assicurando al regime di Bashar el Assad una posizione di forza che soltanto sedici mesi fa, nel giugno 2015, non era immaginabile. Dall’altro lato del fronte è la disperazione totale. Aron Lund, analista freddo e senza inclinazioni per il Carnegie Institute, scrive un’analisi che suona come una condanna definitiva per i gruppi armati anti Assad, che dipendono anche loro dagli aiuti dall’esterno. “Se gli sponsor hanno deciso che non valeva la pena salvare Aleppo est, vuol dire che hanno smesso di appoggiare i ribelli siriani, perché è difficile credere che lascino cadere la città più importante per poi riprenderla un giorno più lontano nel futuro”.
Domenica il governo del Qatar ha tenuto a precisare che anche se l’appoggio americano ai ribelli venisse a mancare, a causa dell’elezione di Donald Trump, il regno sunnita continuerebbe a sostenere la loro causa. Il punto debole del fronte anti Assad è speculare a quello degli assadisti vincenti: la disunione. Un minestrone di sigle in cui soltanto gli specialisti si orientano a fatica, che ha poche speranze di riscuotere la simpatia dell’audience globale in questo momento di crisi. Ieri, pur di non cedere i quartieri agli assadisti, li hanno consegnati ai curdi, immaginando che potrebbero essere un interlocutore meno ostile semmai un giorno si arriverà a negoziati.
Cose dai nostri schermi