Mikhail Bogdanov (foto Friends of Yemen via Flickr)

Russi a Tripoli

Daniele Raineri

Il superdiplomatico Bogdanov e il governo italiano lavorano con discrezione a un accordo anti guerra

Roma. Ci sono segnali incoraggianti da parte delle due Libie, che forse potrebbero arrivare a un accordo politico senza farsi la guerra – e Italia e Russia hanno una parte importante in questi sviluppi.

 

Ieri è arrivato a Tripoli Mikhail Bogdanov, viceministro degli Esteri russo. Bogdanov è uno dei migliori diplomatici al mondo per quanto riguarda i paesi arabi, è stato ambasciatore a Damasco quando c’era Assad padre, si occupa di tutti quegli incontri in cui la propaganda dello stato maggiore viene accantonata ed è necessario parlare di temi concreti. Bogdanov era a Tripoli per discutere la riattivazione dei vecchi contratti stretti con Muammar Gheddafi prima della rivoluzione del 2011, dell’apertura di un’ambasciata a Tripoli e di un aiuto nell’addestramento militare di nuovi soldati “al servizio di un governo di unità nazionale” che però non c’è ancora. Quando l’Italia riaprì l’ambasciata a Tripoli sembrò una mossa prematura perché le autorità non riescono a controllare nemmeno la loro metà del paese, ma ora l’offerta russa mostra che il governo italiano non è il solo a volere un rapporto bilanciato con entrambe le Libie in cui – di fatto – il paese è separato. L’arrivo di Bogdanov in qualche modo frena i timori che la Russia voglia in Libia una soluzione di forza, almeno per ora. Mosca assume una posizione simile a quella italiana: mediazione a oltranza. Il premier italiano, Paolo Gentiloni, da ministro degli Esteri ha seguito con attenzione il dossier libico e l’instaurazione del governo di Fayez al Serraj a Tripoli (che intanto annuncia l’ennesimo viaggio all’estero, questa volta a Washington per incontrare il presidente Donald Trump, che non ha ancora speso una parola sulla Libia).

 

Fino al mese scorso sembrava che in Libia la situazione avesse imboccato una strada segnata: est contro ovest, Bengasi contro Tripoli, maresciallo di campo Khalifa Haftar – sponsorizzato da Mosca con un cerimoniale simbolico a bordo di una portaerei russa al largo della costa libica a gennaio – contro Fayez al Serraj, capo provvisorio di un governo provvisorio a Tripoli, in teoria sorretto da Nazioni Unite, America e Italia ma in pratica debolissimo. Ci si chiedeva cosa sarebbe accaduto (e ce lo si chiede ancora): Serraj sarebbe stato cacciato dai suoi nemici interni a Tripoli, che sono in combutta con Haftar, e costretto a risalire su quella barca da cui tanto baldanzosamente era disceso nel marzo 2016 e che l’aspetta sempre alla fonda nel porto di Tripoli? Oppure il generale Haftar avrebbe marciato sulla capitale e preso il controllo, come l’anno scorso ha già fatto con i terminal del greggio nel golfo della Sidra? Per ora prevale questa terza via. Venerdì 21 aprile a Roma c’è stato un incontro molto rilassato tra il presidente dell’Alto Consiglio di Stato di Tripoli, Abdulrahman Swelhi, e il presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk, Aguila Saleh – cioè i leader dei due parlamenti rivali. In teoria doveva essere un incontro confidenziale, invece i due hanno fatto circolare anche una foto assieme per lanciare un segnale distensivo (anche se poi Swehli ha minimizzato una volta tornato in patria). Il piano è usare questo incontro come preliminare verso altri incontri più difficili – quelli in cui si decide il ruolo di Haftar nella Libia unita (se mai ci sarà). Per il ministro degli Esteri, Angelino Alfano, e l’ambasciatore a Tripoli, Giuseppe Perrone, è stata un’operazione diplomatica fine portata a un risultato migliore del previsto – ma le notizie in quei giorni erano monopolizzate dal caso di Gabriele Del Grande, il giornalista italiano trattenuto in Turchia. Italia e Russia osservano le mosse reciproche in Libia, nella convinzione crescente che l’Amministrazione Trump abbia deliberato di non occuparsi del dossier libico.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)