Il referendum catalano. Storia di un piano costruito a tavolino
In Catalogna la costruzione del consenso pro indipendenza è stata brutale. Ecco quali sono state le tattiche usate dagli indipendentisti
Barcellona. Lunedì 2 ottobre a Barcellona, il giorno dopo il referendum per l’indipendenza della Catalogna. Avenida Diagonal, non lontano da piazza Catalunya, zona centrale di palazzoni e uffici. A mezzogiorno in punto, gli impiegati iniziano a uscire dagli edifici e a formare grossi capannelli da decine di persone davanti a ciascun civico. Iniziano a battere le mani e a cantare slogan indipendentisti. Alcuni si spostano e bloccano il traffico in strada. Fanno un po’ impressione, tutti esaltati con le loro cravatte grosse e le giacchette di gessato. Do un’occhiata a Twitter. Manifestazioni simili si stanno svolgendo in tutta Barcellona, per protestare “contro la violenza della polizia spagnola”. Sulle pagine social secessioniste si parla di “concentrazioni” per quell’ora, ma nessuno ha fatto un annuncio pubblico magniloquente. Gli impiegati indipendentisti sono apparsi praticamente dal nulla e dopo un quarto d’ora di canti sono rispariti nei loro uffici. Chiedo a qualcuno chi avesse organizzato questa protesta, alcuni ci guardano con imbarazzo e dicono: “Manifestazione spontanea”. Altri cedono e dicono: “Ha organizzato tutto l’Anc”. L’Anc è l’Assamblea nacional catalana, un movimento sociale indipendentista di sinistra, e insieme a un’associazione gemella, Òmnium cultural, è la causa del successo del referendum illegale in Catalogna.
Fast forward di dieci ore. Quartiere di Gràcia, in una piazzetta del centro di Barcellona. Sono le 22 e improvvisamente gli abitanti della zona, di nuovo inattesi, si affacciano dalle finestre e dai balconi e iniziano a battere tra loro i coperchi delle pentole, facendo un rumore fortissimo. Anche qui: nessuna comunicazione previa di questa manifestazione. E anche qui Twitter dice che in tutta Barcellona la gente suona pentole e coperchi. C’è un tweet di Oriol Junqueras, il vicepresidente del governo indipendentista, che esorta tutti a fare più casino possibile per (indovinate?) protestare contro la violenza della polizia spagnola. Non si riesce a capire chi ha organizzato la protesta delle pentole, ma la dinamica è la stessa: un movimento carsico che emerge improvvisamente e coinvolge con perfetta sincronia e in molte parti della città centinaia e forse migliaia di persone. E’ il grande segreto dell’indipendentismo catalano.
Gli indipendentisti catalani sono belli da vedere. Non hanno limiti di età, ci sono i vecchietti tremanti ed eccitati e le famiglie con bambini. Sono pacifici, come si è visto il giorno del referendum. Sono interclassisti: vanno dagli impiegati incravattati di avenida Diagonal agli inquilini della case popolari di Gràcia. Sono trasversali: il loro movimento spazia dai cristianodemocratici ai veterocomunisti della Cup. Sono europeisti. Hanno una storia di oppressione che è finita completamente cinquant’anni fa, ma che viene raccontata così tante volte da sembrare ancora attuale. Le loro istanze non sono fondate su un nazionalismo becero à la Lega nord, ma sulla piattaforma più ampia dei “diritti umani”. Domenica, durante il voto, tutti si commuovevano e si applaudivano a vicenda, si facevano le foto. Se esiste un’idea platonica del perfetto movimento indipendentista, è quello dei catalani. Ingenui ed entusiasti.
E organizzati con precisione militare.
Questo è uno degli aspetti che si è perso via nel racconto del referendum catalano. A Madrid ancora non si capacitano di come sia stato possibile che le forze speciali del governo spagnolo si siano lasciate raggirare da un gruppo di attivisti volontari. Di come domenica i catalani abbiano previsto tutte le mosse degli spagnoli, li abbiano attirati in trappole perfette e costretti al confronto, abbiano fatto ballare il grande stato spagnolo alla loro musica dall’inizio alla fine della giornata referendaria. C’entrano, ovviamente, la gravissima impreparazione di Madrid e la sottovalutazione del problema catalano. Ma il gran successo della strategia catalana ha un’origine precisa: i movimenti sociali.
Alcuni studi biologici hanno scoperto che in una foresta tutti gli alberi sono interconnessi. Le radici si toccano e si scambiano informazioni, e anche se a noi sembra che ogni albero sia un essere a sé, in realtà la foresta è un unico grande superorganismo senziente. Ecco, i movimenti sociali catalani sono così. Estesissimi, diffusi in maniera capillare in ogni barrio e in ogni avenida, capaci di raggiungere tutte le classi sociali e tutte le fasce d’età.
“Ci basta soltanto un’ora per far scendere in piazza 40 mila persone”, dice Francesca Ferreres, italo-catalana, membro della segreteria nazionale dell’Anc. Ha una punta di orgoglio nello sguardo, come a dire: dammi due ore e di persone te ne mobilito centomila. In un giorno arrivo al milione. “L’Anc ha oltre 500 assemblee locali in Catalogna e decine di delegazioni internazionali. Abbiamo una penetrazione completa: sono con noi dai contadini che scendono in piazza con i trattori agli avvocati che forniscono difesa a titolo gratuito ai disobbedienti”. Anc è nata nel 2012 con l’obiettivo esplicito dell’indipendenza della Catalogna. Una volta ottenuta, il movimento si dovrebbe sciogliere. Ha 80 mila membri (di cui 40 mila soci paganti), che insieme ai 70 mila della sua associazione gemella, Òmnium cultural, fanno un bel numero. I due presidenti di Anc e Òmnium, Jordi Sànchez e Jordi Cuixart, sono chiamati “i due Jordi” e secondo José Antonio Zarzalejos, che ha pubblicato un’analisi ieri sul Confidencial, l’amministrazione catalana ha appaltato a loro tutta l’organizzazione del referendum dopo il boicottaggio del governo centrale, trasformandoli nei padroni di fatto del processo d’indipendenza.
Si pensi alla perfetta esecuzione della giornata del referendum, che ancora lascia gli spagnoli sgomenti. I movimenti sociali erano pronti. Hanno organizzato le “associazioni di genitori” che hanno occupato le scuole sede di seggio per due giorni al fine di evitare il sequestro della polizia. I loro militanti hanno tenuto le urne e le schede nei propri appartamenti, in piccole quantità per evitare di accumularle tutte in luoghi che la polizia avrebbe potuto perquisire, per poi portarle di soppiatto ai seggi la domenica all’alba. Durante la giornata referendaria, ai seggi elettorali erano sempre presenti gli attivisti di Anc e di Òmnium, portavano cartellini con scritto “assistente” o “sicurezza” e dirigevano le operazioni di voto. E sempre gli attivisti avevano pronti dei piani “militari” nel caso in cui la Guardia civil avesse fatto irruzione: pattugliare il quartiere e bloccare la polizia in strada prima che entri, attuare tecniche di resistenza passiva (sono gli altri che devono picchiare), bloccare tutti gli ingressi possibili, comprese le grate sul pavimento, nascondere o portare in salvo le urne e le preziose schede.
E poi si pensi al dopo. Lunedì, sono stati i movimenti sociali a organizzare le proteste di massa contro la violenza della polizia, compresa quella degli impiegati indipendentisti, per tenere alta la tensione. Ieri, hanno organizzato uno sciopero generale in tutta la Catalogna che ha avuto enorme riscontro. Secondo le fonti dei media iberici, dentro al Palau de la Generalitat i due Jordi esortano il governatore Carles Puigdemont ad adottare la linea più dura di tutte: indipendenza subito, senza negoziati e senza esitazioni. Sanno di essere abbastanza forti da dettare le condizioni, loro e gli altri leader dei vari movimenti, che spesso militano in più gruppi contemporaneamente, oppure in gruppi della società civile e in partiti. Nell’associazionismo catalano ormai i confini tra società e politica sono saltati, e tutti condividono un’unità d’intenti, creando un substrato reticolato e fitto: le radici degli alberi nella foresta.
E’ questa rete di attivismo che ha fatto nascere e ha portato a compimento il processo referendario. Che in pochissimi anni ha portato delle posizioni marginali dentro alla società catalana a diventare quasi maggioritarie e così potenti da provocare una frattura nel cuore dell’Europa. Che ha plasmato il movimento indipendentista per quello che è oggi, bello da vedere, sinceramente popolare, capace di ispirare fiducia. L’idea platonica del movimento indipendentista, dicevamo. Ma come si realizza un’idea così? Semplice, la si crea a tavolino.
Sabato pomeriggio, la vigilia del referendum, ero nel quartiere Sants per incontrare Antonio Baños, uno dei simboli dell’attivismo di sinistra e indipendentista. Giornalista e intellettuale, fino all’anno scorso Baños è stato il volto pubblico e l’animatore della Cup, il partito di estrema sinistra che con i suoi deputati al Parlament di Barcellona ha dato un contributo fondamentale al processo referendario. Lui nel 2016 si è dimesso da deputato, ma ha mantenuto i contatti con la Cup, fa parte della segreteria nazionale dell’Anc e inoltre è portavoce di Súmate, un altro movimento sociale che ha come compito quello di appassionare alla causa indipendentista i catalani che parlano castigliano. In pratica Baños è la personificazione della rete dell’attivismo catalano e della commistione tra i gruppi.
Quando arrivo al luogo dell’appuntamento con Baños nel quartiere Sants, lui è ancora impegnato in un’altra riunione. Prendo posto fra i presenti senza che nessuno ci faccia caso e mi trovo così ad assistere a un incontro chiuso alla stampa tra Baños, un’altra leader del movimento secessionista catalano e una delegazione di indipendentisti baschi di sinistra venuta a imparare dai maestri come si fa la rivoluzione. “Fino a dieci anni fa noi indipendentisti catalani avevamo la sindrome della ‘baschite’: erano loro i secessionisti bravi”, mi dirà Baños dopo la riunione. “Oggi però è il contrario”. Parlando con i discepoli baschi, i due leader catalani raccontano che la lotta per trasformare l’indipendentismo in un sentimento di massa è stata fatta conquistando il territorio pezzettino per pezzettino. “I nostri attivisti non facevano banchetti in piazza. Li mandavamo a riparare le biciclette dei bambini, ad aiutare le vecchiette ad attraversare la strada. Così ci avvicinavamo alla popolazione e finivamo per convincerla, barrio dopo barrio”.
Baños mi spiega inoltre che la Catalogna era il luogo perfetto per questo esperimento. “Fin da bambini i catalani si ‘socializzano’. Qui c’è una eccezionale mobilitazione civile, i catalani creano associazioni per qualsiasi cosa, molti cittadini militano in sei, sette, otto associazioni”. E’ bastato prendere questo tessuto di attivismo e convertirlo tutto verso il medesimo obiettivo: l’indipendenza.
In questo ambiente favorevole ci sono stati i detonatori: l’ottusità del governo Rajoy, indisponibile al dialogo e anzi ostile a ogni concessione di autonomia ai catalani (“La chiave del successo di ogni film di supereroi è avere un buon cattivo”) e la crisi economica, che ha fomentato il malcontento. E poi ci sono i facilitatori. Baños parla con stupore di Puigdemont, il governatore catalano apparso sulla scena un anno fa senza suscitare aspettative ed entusiasmi e diventato a sorpresa il leader trascinatore del processo referendario. “Prendete tutto il sentimento indipendentista che c’è intorno a questo tavolo”, dice Baños indicando se stesso e gli indipendentisti baschi. “Ecco, mettetelo tutto insieme e Puigdemont ne avrà comunque sette-otto volte più di noi. Quell’uomo è testardo come un mulo, non ha paura di niente, nemmeno di andare in carcere”.
Alla fine quelle descritte da Baños sono tecniche antiche, le stesse che usavano i sindacalisti comunisti nelle fabbriche europee nel Diciannovesimo secolo. Ma in Catalogna sono state applicate capillarmente, battendo il territorio in ogni angolo, con una predeterminazione e una pianificazione impressionanti. Che l’obiettivo è stato raggiunto lo capisci quando parli con i catalani che manifestano in strada, dunque politicamente attivi. Tutti parlano con toni idealisti e libertari, quasi ti convincono, ma dopo un po’ ci si accorge che usano sempre gli stessi talking point. Tutti parlano dei diritti umani, della repressione del governo, del fatto che il movimento referendario vuole garantire ai catalani il diritto di scelta. Il discorso è entrato sottopelle, e il referendum ha avuto l’effetto spettacolare di trasmettere il virus anche fuori dalla Catalogna.
Le botte della Guardia civil hanno certo aiutato, ma Anc e Òmnium sono famose per organizzare la Diada, la manifestazione oceanica che ogni anno sfila per le strade di Barcellona chiedendo l’indipendenza. La Diada è una manifestazione altamente coreografata che ogni anno attira i giornalisti come le mosche, e negli scorsi giorni i movimenti hanno usato le stesse tecniche e parte delle stesse coreografie per far scattare nell’opinione pubblica alcuni riflessi pavloviani. La costruzione del consenso brutale avvenuta negli scorsi anni è dimenticata e obliterata dalle facce pulite dei manifestanti. I giornalisti non aspettavano altro.
Resta da capire cos’abbia fatto il governo di Madrid in questi anni in cui l’indipendentismo si mangiava piano piano la Catalogna. Capire se si stava accorgendo di ciò che succedeva, se ha sottostimato il pericolo tout court o se ha valutato male la forza dei movimenti sociali. “Madrid ha sempre pensato che i catalani non si sarebbero mai rivoltati per davvero. ‘Sono ricchi’, dicevano, ‘non metteranno a rischio lo status quo’”, ci dice Miriam Tey, vicepresidente di Societat civil catalana, uno dei pochissimi movimenti sociali contrari all’indipendenza. Spesso inoltre la rete delle convenienze era complessa. Barcellona ha usato Madrid come spauracchio, ma a volte è successo l’opposto. In alcuni casi, i voti delle formazioni catalane alle Cortes hanno fatto comodo ai partiti spagnoli. Il problema è stato nascosto o ignorato. “Noi abbiamo cercato di avvertirli”, dice Tey, ma ormai era tardi.