Quell'“omicidio simbolico” di Israele
L’America esce dall’Unesco, ma l’occidente l’aveva già abbandonata a chi impicca e rade al suolo
“Qui si attaccano i valori fondamentali dell’occidente”, disse Jean Gerard, ambasciatrice americana all’Unesco, nell’annunciare nel 1984 la decisione degli Stati Uniti di uscire dall’agenzia dell’Onu per la cultura. Sono trascorsi più di trent’anni e la scena si è ripetuta giovedì, quando il dipartimento di stato ha certificato all’Unesco la decisione di uscire e di diventare “osservatore” – la stessa cosa, sempre giovedì, l’ha fatta Israele, annunciando l’uscita dall’Unesco. Una decisione che, dicono a Washington, “non è stata presa a cuor leggero e riflette le preoccupazioni degli Stati Uniti per il crescente arretramento dell’Unesco, per la necessità di una fondamentale riforma dell’organizzazione e per i suoi persistenti pregiudizi anti Israele”.
All’epoca in cui Ronald Reagan e Margaret Thatcher abbandonarono l’Unesco, questa era dominata dal blocco sovietico-terzomondista e l’America accusò l’agenzia di politicizzazione, sperperi e pregiudiziali antisraeliane. Sulla scia della guerra del Kippur, per iniziativa dei paesi arabi, l’Unesco aveva escluso Israele da ogni gruppo. Nel 1984 l’America non escluse di rientrare, “se le condizioni migliorano”. Accadde soltanto nel 2002. Speriamo che stavolta lo strappo possa ricucirsi prima.
Nel 2011, già l’Amministrazione Obama aveva deciso di sospendere i fondi all’Unesco a causa dell’ingresso della “Palestina” fra i membri. All’epoca di Reagan, l’Unesco subiva il ricatto dei paesi sotto influenza sovietica, quando l’allora segretario generale dell’Unesco, il musulmano senegalese Amadou-Mahtar M’Bow, proclamava nella Ville Lumière che “i paesi del Terzo mondo sono i portatori della speranza nel pianeta”. Oggi nel board siedono 58 paesi. Di questi, secondo Freedom House, 20 sono “parzialmente liberi”, 15 “non liberi” e 23 “liberi”.
Dittature e autocrazie islamiche e africane dominano ancora la commissione mondiale delle idee (il Sudan di Omar al Bashir, ricercato per genocidio dall’Aia, siede nel board esecutivo dell’agenzia). E il sessanta per cento del bilancio finisce ancora in stipendi. L’America esce a pochi giorni dalla scelta del nuovo capo dell’Unesco, dove si profila una gara fra i due ex ministri della Cultura di Francia e Qatar, Audrey Azoulay e Hamad al Kawari. Se la più alta istanza mondiale della cultura finisse nelle mani dell’emirato qatariota, sponsor mondiale dell’islam politico (Hamas, Hezbollah, Jabat al Nusra, Talebani) e delle risoluzioni che quest’anno hanno cancellato le radici ebraiche (e cristiane) di Gerusalemme e Hebron, l’Unesco invierebbe all’America il segnale che la situazione non è recuperabile, ma anche che l’abbandono dell’Unesco da parte dell’occidente ai “non allineati” e alla mezzaluna, gli stati che impiccano, mutilano e spalleggiano chi ha raso al suolo Palmira, si era già consumato da tempo.
Un anno fa, lo scrittore algerino Boualem Sansal al convegno del Foglio a Roma disse che l’Unesco aveva compiuto un “omicidio simbolico”: “Sta dicendo che gli ebrei non hanno nulla a che fare con Israele, vengono da altrove, torneranno lì”. Con una simile agenzia dell’Onu non dialoghi, gli chiudi i rubinetti, lo intimorisci, lo metti all’angolo e speri che rinsavisca, smettendo di essere quella che Jean-François Revel definì “l’internazionale della menzogna”. Una bugia, ripetuta molte volte, finisce per diventare verità, diceva il ministro della Propaganda nazista Goebbels. Di bugie, su Israele, l’Unesco ne ha dette tante, troppe. E il terreno che le accoglie è sempre più fertile e una bugia va tagliata prima che, una volta ben radicata, diventi una quercia.
L'editoriale dell'elefantino