Eccola la pistola fumante di Trump
Garanzie e procedure sono importanti. Ma nella decomposizione demagogica americana un fatto non si può più negare: Trump ha fatto una campagna elettorale con l’aiuto di Putin. In attesa dei processi, le prove politiche esistono e sono queste
Se Trump dice che oggi, per chi legge, è giovedì, invito a diffidare. Ho un pregiudizio negativo, largamente condiviso e largamente contestato, sulla persona. Può fare qualunque cosa, anche il mio bene assoluto e quello del mondo, ma il fatto che lo faccia lui e ovviamente a modo suo continuerà sempre a suscitare il mio scorno. Con lui presidente, America e mondo vanno o possono andare, salvo resistenze e controtendenze, in una direzione contraria alle mie povere radici di radicale e di conservatore, da quando ero un pulcino di una covata comunista, poi militante adulto, alla maturità anticomunista, presuntivamente e incompiutamente liberale.
Fatta questa premessa, il lettore ne ha diritto, io mi domando: che cosa aspettiamo a dichiarare che Donald J. Trump è stato trovato nel caso Russia con la pistola fumante in mano? Garanzie e procedure sono importanti, chiaro. Molto importanti. Ne va dello stato di diritto. Ne va della sovranità elettorale degli Stati Uniti. E di un sistema di alleanze, di bilanciamenti della forza e della pace, ridotto in penosi lacerti, ma ancora in qualche strano modo sopravvissuto alla tempesta inquinante dell’America First e di certi metodi tendenzialmente autoritari e di decomposizione demagogica di una seria democrazia liberale, un sistema legato alla storia e alla funzione americana sulla scena mondiale. Politici magistrati poliziotti diplomazie governi autorità e burocrazie amministrative di questo devono scrupolosamente tenere conto. Ma il giornalismo, che è osservazione della cosa secondo un angolo visuale soggettivo, onesto e non fazioso ma non sornione, non neutro (lo ricordava qui ieri Claudio Cerasa parlando del libro di Linda Greenhouse), non appartiene di rigore a questo establishment e ai suoi apparati, si muove nel free speech, deve poter esercitare una certa libertà di sguardo. E allora?
Allora, ecco. Trump ha fatto la campagna elettorale contro la Clinton e con l’aiuto di Putin. E’ non solo un fatto largamente e ufficialmente accertato e riconosciuto (Paola Peduzzi, ieri, ce ne ha informato), è una sua testimonianza personale pubblica in campagna, quando chiese esplicitamente a Putin di venirgli in aiuto, e lo fece per coprire con la sua faccia tosta richieste concrete, che ebbero contropartite concrete, lungo linee clandestine e penalmente perseguibili. Trump ha un figlio e collaboratore istituzionale che si chiama come lui e che ha mandato a un avvocato legato al governo di Mosca che gli proponeva materiale elettorale contro l’avversario, con il quale si era incontrato, sebbene a tutta prima negasse, una mail in cui sta scritto: “I love it”. Trump ha un genero che prima ha negato poi ha ammesso incontri riservati di buon livello che lo mettono alla pari del cognato. Trump ha avuto un direttore di campagna che si chiama Paul Manafort e che per stare a piede libero ha dovuto consegnare una cauzione di 10 milioni di dollari (20 miliardi di vecchie lire) al magistrato dell’accusa al quale lo special counsel Robert Mueller ha consegnato prove di cospirazione contro gli Stati Uniti, riciclaggio e altro, ancora da verificare presso un giudice terzo ma secondo tutte le certificate circostanze sulla buona strada di esserlo. Trump ha avuto per consulente di politica estera un tipo rozzo e losco, e non si tratta dunque solo di greci amici di maltesi già rei confessi di intrugli con Mosca (che come per noi italiani potremmo risolverla con “una faccia una razza”), no, è un tizio che Trump ha fatto capo del Consiglio per la sicurezza nazionale, il generale Michael Flynn, per poi doverlo vedere messo in fuga dallo scandalo sui suoi rapporti internazionali spuri dopo qualche tempo. Trump ha incontrato James B. Comey, capo dell’Fbi di cui poteva presumere inclinazioni amichevoli, avendo una sua dichiarazione undici giorni prima delle elezioni contribuito alla vittoria trumpiana almeno quanto gli esborsi a Facebook e i cyberattacchi di ogni genere della filiera spionistica putiniana, e gli ha chiesto di chiudere un occhio su Flynn. Poi lo ha licenziato e ha dichiarato di averlo fatto perché non condivideva il suo orientamento investigativo in materia di rapporti tra la sua campagna e la Russia di Putin. Infine ha dovuto subire la nomina di un rispettato ex capo dell’Fbi, Mueller, come special counsel che indaga su tutta la faccenda e che ha cominciato da Paul Manafort & socio, ma prima attacca ferocemente il capo della Giustizia da lui nominato, Jeff Sessions, con l’esplicita motivazione che non doveva astenersi e consentire la nomina di Mueller, eppoi lascia che si dica, da parte anche della stampa scritta che fa capo all’editore Rupert Murdoch (la Fox, vabbè, è puro tifo), che Mueller dovrebbe dimettersi sennò è capace di licenziarlo lui, magari aggiungendo la grazia presidenziale a tutti i suoi collaboratori investiti dalla faccenda e forse addirittura a sé medesimo.
Se questa non è una pistola fumante, per chi racconta il grande delitto americano, ditemi che cos’è una pistola fumante.