La Cina prepara una trappola "plus" per blandire Donald Trump
Comincia la visita di stato a Pechino del presidente, e questa volta l'uomo forte è Xi Jinping. La tenuta del "modello americano"
Roma. Lo scorso maggio, quando Donald Trump visitò l’Arabia saudita, re Salman lo omaggiò con un’accoglienza sfarzosa, mostrando perfino gigantografie del presidente americano per le strade di Riad. Fu ricompensato con un megacontratto di forniture d’armi da 110 miliardi di dollari e dichiarazioni calorose di alleanza. Oggi, all’arrivo di Trump in Cina, il presidente Xi Jinping tenterà più o meno lo stesso schema. Già da una settimana il ministero degli Esteri di Pechino ha fatto girare la voce che a Trump sarà riservata una “visita di stato plus”, con più onori e lusso di chiunque altro, perché di tutte le debolezze di Donald Trump nessuna è più evidente di quella per l’adulazione. Ma stasera, quando il presidente americano si siederà al tavolo con Xi e le due first lady per la prima cena di stato a Pechino, la domanda che tutti si porranno sarà: cosa succede adesso che il presidente americano non è più l’uomo più potente in quella stanza? Questo, si sa, è ciò che ha detto l’Economist in una copertina ormai celebre, ma sono in molti a pensare che, forse per la prima volta dall’inizio delle relazioni tra Stati Uniti e Cina, chi governa a Pechino abbia più margine di manovra e più capitale politico di chi governa a Washington . Specie di questi tempi, quando i consensi di Trump sono ai minimi storici dall’epoca di Truman e invece Xi è appena stato innalzato al rango di nuova semidivinità della leadership cinese nell’ultimo Congresso comunista. “Per la prima volta la Cina non è in una posizione di sudditanza nei confronti dell’America”, ha detto al New York Times Yan Xuetong, professore all’Università Tsinghua. E mentre Xi è al massimo della sua potenza, “Trump rappresenta soltanto se stesso”.
Il presidente americano ha mandato segnali contrastanti durante i primi giorni del suo tour asiatico. Non ha voluto sull’Air Force One Peter Navarro, il più falco dei suoi consiglieri sulla Cina, e questo è sembrato un segnale distensivo. Ma al tempo stesso le frequenti citazioni di un’area dell’“Indo-Pacifico” che accomuni le democrazie asiatiche alleate degli Stati Uniti pare un colpo al progetto di influenza continentale di Xi. Ma, come al solito, troppa programmazione non giova quando si parla di Donald Trump, e il Wall Street Journal ha raccontato che tutti, alleati e consiglieri, temono che il presidente ubriaco per l’accoglienza imperiale, per l’urgenza della questione nordcoreana e per la sua fama di artista del deal finisca per “fare una nixonata”, e accetti la proposta cinese di creare “un nuovo tipo di relazioni tra grandi potenze”, un G2 in cui Washington e Pechino si spartiscono il mondo tra pari, in attesa che Pechino sia pronta per prenderselo tutto. Si tratterebbe, in pratica, di dare dignità definitiva al “modello cinese” e alla sua esportazione nel resto dell’Asia, cosa che il capo di gabinetto John Kelly sembra aver già riconosciuto in un’intervista a Fox News.
La Cina, ha detto Kelly, ha un “sistema di governo che sembra aver funzionato per il popolo cinese”: esattamente ciò che vuole Pechino. Per fortuna, il “modello cinese” sembra ancora lontano dal poter raggiungere quello americano. “Gli Stati Uniti sono stati campioni del modello democratico perché hanno garantito successo economico e prosperità, e lo fanno da settant’anni”, dice al Foglio Damien Ma, fellow e direttore associato del think tank al Paulson Institute. “E mentre la Cina ha avuto un successo eccezionale come mercato emergente, affinché un suo ‘modello’ possa prendere piede deve continuare a dimostrare di avere successo, altrimenti non otterrà grandi risultati”. Insomma, i meriti passati ancora garantiscono al modello americano forza tra gli alleati. Ma questo avviene nonostante Trump.