Tour de France o morte
Macron chiude la Francia ai grandi eventi “almeno fino a metà luglio”. La Grande Boucle slitterà e si potrebbe correre tra il 29 agosto e il 20 settembre. Perché il ciclismo non può fare a meno della corsa a tappe francese
“Flat tire on the paving-stones / The bicycle is repaired quickly / The peloton is regrouped”. Così almeno cantavano nel 2003 i Kraftwerk.
Ora il gruppo si è sì ricompattato, ma questa volta è immobile. E per riparare lo pneumatico ci vorrà del tempo, non basterà questa volta togliere la ruota e rimetterne un’altra. Le bici sono ferme, appoggiate al muro o agganciate ai rulli, in ogni caso non scendono in strada. Lo potrebbero fare, almeno quelle dei professionisti, ma il momento è quello che è e fuori dalle case, almeno in Italia ma non solo in Italia, la libertà della bicicletta è mal vista, sempre più mal tollerata anche dove di solito è amata. Nel nostro paese, così come in Francia, la Federazione e l’associazione corridori ha chiesto ai professionisti di non uscire in strada. In Belgio Harm Vanhoucke era stato preso a pugni e calci a metà marzo, Oliver Naesen e Greg Van Avermaet sono stati ricoperti di insulti per le loro sessioni di allenamento all’aperto. E anche in Spagna e Svizzera l’insofferenza per i ciclisti sta aumentando.
Lo sconvolgimento generale provocato dalla pandemia di Covid-19 ha poi spostato lo spostabile e annullato l’annullabile. Sono saltate corse più o meno antiche e più o meno prestigiose. Dalla Milano-Sanremo al Giro d’Italia, dal Giro delle Fiandre alla Parigi-Roubaix non s’è salvato nessuno. Neppure l’Olimpiade. Tutti hanno dovuto fare i conti con l’emergenza. Chi ha lottato e sperato più degli altri è stato il Tour de France. Lo ha fatto perché si corre, quest’anno tra giugno e luglio, soprattutto per blasone, storia e importanza. Soprattutto per speranza, perché questo è la Grande Boucle, almeno per Lucien Petit-Breton, il primo a conquistarla due volte: “Il Tour è speranza: di correrlo, di resistergli, di finirlo. È più di una gara, è la Francia. E anche per questo ci vuole speranza”.
La speranza che il Tour de France potesse resistere alla pandemia è finita ieri sera. “I principali festival ed eventi che prevedono un largo afflusso di persone non si potranno tenere almeno fino a metà luglio”. Con queste parole il presidente francese Emmanuel Macron ha chiuso una discussione che non si era mai nemmeno davvero aperta. Che ci potesse essere uno slittamento in calendario gli organizzatori l’avevano messo in programma tanto che, come confermato al Foglio da un dirigente dell’Aso – la società organizzatrice della corsa – sono stati elaborati già due piani alternativi per salvare la gara a tappe.
È quell’“almeno” però che preoccupa. E non solo l’Aso, anche tutto il ciclismo. Nonostante la Francia abbia già una data per ripartire, l’11 maggio, questa data non coinciderà però con un'apertura totale, ma con l'avvio di un percorso graduale. E a farne le spese potrebbe essere lo sport in quanto considerata attività non essenziale. Nelle scorse settimane la ministra dello Sport Roxana Maracineanu, aveva ipotizzato un’edizione del Tour a porte chiuse che tanto “vive di contratti televisivi”. Il patron della Grande Boucle, Christian Prudhomme, aveva subito rimandato l’idea al mittente: “Il Tour è la Francia e non si svolgerà a porte chiuse”. L’Union cycliste internationale (Uci) aveva poi contattato il governo francese e aveva spiegato la situazione: il Tour non vive di soli contratti televisivi e la questione è un po’ più complicata perché questa corsa è qualcosa di più di una corsa. In poche parole: se il Tour de France non si corre salta gran parte del ciclismo.
Ognuna delle 19 squadre del World Tour – la serie A del ciclismo, la categoria che permette di partecipare a tutte le corse più importanti del calendario mondiale – vive grazie agli sponsor. Sponsor che pagano gli stipendi a corridori, dirigenti e personale tecnico, e che versano quasi 100 mila euro l’anno all’Uci e quasi 130 mila euro alla Cycling Anti-Doping Foundation per permettere che tutto vada avanti. Insomma che ogni anno tirano fuori circa 20/25 milioni di euro. E questo soprattutto per poter esibire il proprio logo e far vedere il proprio nome davanti a una platea mondiale composta da 12 milioni di europei e un’altra trentina di milioni di persone sparse per tutto il mondo: quella del Tour de France.
Romain Bardet, che è ciclista intelligente e raffinato sia sui pedali che giù di sella, oggi ha messo in chiaro la situazione in un'intervista al Monde. “Con altri compagni della squadra parteciperò al Tour de Suisse virtuale la prossima settimana. Sarà in diretta televisiva in Svizzera: un palliativo certo ma che ci permetterà di dare un po’ di visibilità ai nostri sponsor durante questo periodo di blackout. In questo momento è il minimo delle cose per loro. In Francia siamo fortunati ad avere partner solidi, che non si disimpegnano alla prima difficoltà. All'estero però alcune squadre stanno cadendo a pezzi. Gli sponsor si stanno ritirando oppure non pagano più corridori e staff. Il sistema di protezione è inesistente. Per il momento, almeno in Francia, non abbiamo parlato di un taglio dei salari; ma è solo perché tutti hanno in mente la prospettiva di partecipare al Tour de France e che con questa corsa quasi tutto potrà essere salvato”.
L’Uci intanto aspetta l’evolversi della situazione. Nulla verrà deciso prima che dalla Francia arrivi un segnale chiaro. Per ora si è scelto di disputarlo tra il 29 agosto e il 20 settembre, ma la nuova data deve essere ancora confermata. L'incontro dovrebbe tenersi nei prossimi giorni. E questo sempre che la situazione si stabilizzi e non ci siano nuovi interventi del governo. “La missione”, dicono al Foglio da Aigle, “è principalmente una: correre il Tour, a qualsiasi condizione. Poi troveremo una soluzione a tutte le altre corse”.