I danni del populismo penale: si veda l'esempio delle confische di mafia
Ecco perché il dàgli al corrotto è solo una strategia politica, vuota e inutile. Il giustizialismo è cavalcato in maniera diversa da destra e da sinistra, ma il risultato è lo stesso
Le forti ventate di populismo giustizialista levatesi da qualche tempo nel nostro paese, per vero in maniera trasversale agli schieramenti politici (ma con la differenza che, mentre la “destra” suole drammatizzare l’allarme per la criminalità comune, la “sinistra” tende invece a enfatizzare in misura maggiore quello per le mafie e la criminalità dei colletti bianchi), spingono sempre più a concepire modifiche legislative all’insegna del più smodato repressivismo: trascurando non solo – come ha anche ammonito Papa Francesco – che la repressione penale non è la medicina più adatta a curare e prevenire i grandi mali sociali, ma anche che non sono il rigore sanzionatorio o l’incremento delle pene strumenti da soli in grado di contrastare efficacemente i fenomeni dannosi da fronteggiare. Ma questa duplice verità, consolidata nelle cerchie degli esperti, verosimilmente risulta sgradita o sfugge per una doppia ragione di comodo: innanzitutto, assecondando la richiesta di punizioni draconiane proveniente dai settori più frustrati o indignati della pubblica opinione, i politici “pan-punitivisti” confidano di poter così lucrare maggiori quote di consenso elettorale; in secondo luogo, la risposta punitiva (o più punitiva) rappresenta in ogni caso uno strumento di intervento più semplice e meno impegnativo rispetto a soluzioni politiche ben più sofisticate ed efficaci (riforme socio-economiche, piani di sviluppo, strategie di prevenzione sociale, amministrativa o educativa ecc.), che i politici odierni non hanno la capacità di ideare o per le quali non dispongono delle risorse occorrenti.
Questa ricorrente tentazione di abusare del diritto punitivo (concepito in senso lato come comprensivo sia del diritto penale, sia delle cosiddette misure di prevenzione) emerge con chiarezza, tra l’altro, a proposito di alcune modifiche del codice antimafia già approvate dalla Camera e oggetto di prossima discussione al Senato. Di che stratta? Si tratta, in particolare, della proposta di inserire nel novero delle persone potenzialmente destinatarie delle cosiddette misure di prevenzione patrimoniali anti-mafia, cioè del sequestro e della confisca di interi (o di parti di) patrimoni di origine illecita, anche i soggetti “indiziati” di aver commesso anche un solo delitto tra quelli dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (ad eccezione soltanto, perché non espressamente menzionati, dei reati di abuso di ufficio e rifiuto od omissione di atti di ufficio): dunque, si fa riferimento all’indiziato di delitti quali il peculato, la malversazione, la concussione e l’induzione indebita, la corruzione nelle sue diverse forme. Ma, per comprendere l’effettiva portata di questa novità in discussione, è opportuno fare un passo indietro e addentrarsi in una piccola boscaglia normativa, che comporta a sua volta qualche tecnicalità un po’ ostica che il lettore vorrà perdonare.
La prima cosa che i non addetti ai lavori forse non sanno, e che forse li sorprenderà, è questa: il sequestro e la confisca dei patrimoni illeciti possono essere applicati agli indiziati di uno dei suddetti delitti contro la Pubblica amministrazione già in base al diritto vigente, senza che sia necessaria al riguardo alcune riforma. Sapete perché? Perché lo consentono le prime novità normative in proposito introdotte dai due “pacchetti-sicurezza” del 2008 e del 2009, che hanno consentito l’estensione applicativa del sequestro e della confisca anche a coloro che, sulla base di elementi di fatto, debbano ritenersi “abitualmente dediti a traffici delittuosi”: questa abitualità nell’attività delittuosa, per interpretazione pressoché unanime, è infatti suscettibile di essere riferita a qualsiasi tipo di reato, inclusi – non certo ultimi – appunto reati contro la Pubblica amministrazione come la corruzione, il peculato ecc. Non a caso, nei confronti di una estensione così generale e indifferenziata delle misure patrimoniali già allora si levarono subito voci critiche, non solo in seno alla dottrina accademica ma anche tra i magistrati: ciò per un insieme di ragioni di fondo che – come fra poco vedremo – appaiono ancora più evidenti e stringenti rispetto alle novità aggiuntive contenute nella proposta in atto oggetto di vaglio parlamentare.
Quest’ultima proposta, in effetti, innova rispetto al diritto vigente come or ora illustrato sotto due profili: a) include esplicitamente (senza più rendere necessaria, quindi, la deduzione interpretativa dal generico concetto di “soggetti abitualmente dediti a traffici delittuosi”), tra i potenziali destinatari del sequestro e della confisca, le persone indiziate della commissione di uno dei reati contro la Pubblica amministrazione tra quelli sopra richiamati ; b) ma, così facendo, rinuncia appunto a richiedere quale presupposto il requisito delimitativo dell’“abitualità” nel reato, accontentandosi invece della presenza di indizi relativi alla commissione anche di un solo illecito. Tutto ciò, a ben vedere, è manifestamente irrazionale alla stregua dei principi di una politica penale costituzionalmente orientata, a cominciare da quelli di ragionevolezza e proporzione. Prima di spiegare perché, si considerino questi due esempi: si ipotizzi che sussistano indizi per supporre che un vigile urbano abbia imposto ad un salumiere di consegnargli gratuitamente una certa quantità di prosciutto e di formaggio, minacciandolo che altrimenti gli avrebbe contestato violazioni in realtà inesistenti della normativa sulla conservazione degli alimenti; orbene: l’indizio della commissione di questa sola concussione potrebbe considerarsi presupposto ragionevole per confiscare al vigile, ad esempio, la casa di proprietà? Oppure, si ipotizzi un caso analogo in tema di peculato: sarebbe ragionevole confiscare tutti i beni di proprietà di un pubblico dipendente sospettato di un solo peculato del valore di qualche migliaio di euro?
E’ venuto il momento, a questo punto, di spiegare la logica e le funzioni della confisca antimafia e di chiarire perché questa logica e queste funzioni non siano trasferibili automaticamente a singoli reati contro la Pubblica amministrazione.
Una confisca come quella antimafia, che tecnicamente si definisce confisca “allargata”, nasce nei primi anni Ottanta dello scorso secolo come misura drastica tipicamente finalizzata alla neutralizzazione della potenza economica del crimine organizzato, e proprio in considerazione di questo importante obiettivo sono apparsi tollerabili gli affievolimenti che la sua applicazione comporta di alcuni fondamentali principi del garantismo classico (presunzione di non colpevolezza, proporzione ecc.). In particolare, la semplificazione degli oneri dell’accusa circa la prova dell’origine illecita dei compendi patrimoniali da confiscare ha, come ragione giustificatrice, un retroterra di acquisizioni criminologiche specificamente relative al settore del crimine organizzato in senso stretto: tra queste, in primo luogo la presunzione empiricamente fondata che le ricchezze accumulate da un soggetto appartenente (o indiziato di appartenere) alla criminalità organizzata siano frutto non già del singolo fatto sub iudice, bensì di una serie di attività illecite ripetute nel tempo, tali da poter fare a buon diritto presumere che l’intero patrimoni di cui il soggetto dispone si sia accumulato per effetto della continuità nell’attività criminosa. Senonché, una analoga presunzione sarebbe priva di base empirica, e perciò carente di fondamento giustificativo (e dunque sindacabile dalla Corte costituzionale!), fuori dal campo della criminalità organizzata, come appunto – tra l’altro – nel caso dei reati contro la Pubblica amministrazione: perché indizi di commissione di un singolo reato di peculato o di un singolo reato di corruzione dovrebbero essere considerati fondatamente sintomatici di una attività delinquenziale che si è protratta o che è destinata a protrarsi nel tempo?
Chi lo ritiene, probabilmente, trae il suo convincimento dalla doppia convinzione oggi sempre più diffusa – ancorché tutt’altro che empiricamente riscontrata – che un reato in particolare come la corruzione abbia una natura tendenzialmente sistemica e che i fenomeni corruttivi siano spesso intrecciati con i fenomeni mafiosi. Ammesso e non concesso che le cose stiano davvero così sul piano criminologico, non ne conseguirebbero affatto però la plausibilità e la persuasività di una proposta di estensione della confisca antimafia come quella qui criticata: ben diversi da quelli oggi in discussione dovrebbero essere, in ogni caso, i presupposti tecnico-normativi idonei a rendere inattaccabile una riforma volta a estendere la logica della confisca allargata a settori criminosi diversi da quello originario del crimine organizzato.