Il vicolo cieco di Francesco
Fare il Papa in questo mondo complicato è una fatica indicibile, ma dire che democrazie e dittature, occidentali e terroristi, sono sullo stesso piano significa scagliare pietre senza criterio sul mondo abitato da libertà e male
La conversazione di Papa Francesco con Paolo Rodari di Repubblica ha per oggetto il primo atto, la Messa nella cena del Signore, del triduo pasquale, è dedicata ai carcerati, al peccato e alla misericordia divina. Il Pontefice dice cose letteralmente liberatorie in proposito, belle e vere. Don Chisciotte cercò di liberare i forzati, quando li incontrò sulla sua strada di cavaliere errante, ma l’ironia del romanzo moderno dice che fu costretto a pentirsi della sua misericordia subito dopo averla esercitata pugnacemente, perché ne fu ricambiato con una bella bastonatura. Nemmeno a un Papa di lingua castigliana si può chiedere l’ironia cervantina. Non, almeno, oltre la misura della parabola evangelica, sottile e a suo modo misteriosa ma eloquente, della richiesta di scagliare la prima pietra se si sia senza peccato. Viva il Papa, dunque, che porta in un carcere la cerimonia liturgica della lavanda dei piedi.
La parte della conversazione dedicata alla violenza nel mondo è invece di una curiosa ambivalenza. Di prammatica, e sacrosanta, la condanna di principio della violenza da dovunque provenga. Meno chiari, per non dire opachi, i riferimenti di fatto ai signori della guerra, ai trafficanti di armi che guadagnano con il loro commercio di morte, alla logica di rappresaglia e alle spirali cui induce ogni forma di violenza, indistintamente (e si sottolinea: indistintamente). La morale, in cui si fondono alla fine i due discorsi in una singola metafora, è che siamo tutti prigionieri, tutti chiusi nella cella dell’individualismo e obbedienti alla legge di mercato. E qui si passa di corsa dall’ambivalenza all’ambiguità. Le democrazie e le dittature, occidentali e terroristi, stati canaglia e paesi liberi, tutti sono considerati sullo stesso piano con eguale sfoggio di moralismo.
Nella guerra si distinguono amici e nemici, carnefici e vittime. Se invece tutti sono indistintamente nemici, se l’aggressione e la rappresaglia, come ogni altra forma di dissuasione, vengono messe sullo stesso piano, se le responsabilità sono generiche e moralistiche, i signori della guerra, i trafficanti d’armi, la brama di profitto, il risultato è che si scagliano pietre senza criterio sul mondo creato e abitato dalla libertà e dal male, e si lasciano gli uomini in balìa degli eventi e in attesa di una misericordia che non verrà mai. C’è bisogno di armi per difendere i cristiani d’oriente, i copti, lo stesso Papa in pellegrinaggio in Egitto, c’è bisogno di armi per respingere la corsa al nucleare iraniano, per debellare il jihadismo e le sue minacce e le sue opere, c’è bisogno di deterrenza, di forza, di qualcosa che possa interrompere la spirale della violenza e l’aggressività di chi vuole assoggettare il mondo cosiddetto civilizzato, il mondo abitato dai nemici ebrei e cristiani, alla sharia, che non è una diversità culturale come un’altra, è una sfida esistenziale. Quando il Papa scrisse a Putin e si riunì in digiuno e preghiera per scongiurare una risposta armata e convincente, anche dal punto di vista negoziale, all’attacco chimico di Assad che colpì alla periferia di Damasco oltre un migliaio di innocenti, il Papa portò la metafora della misericordia in un vicolo cieco. Oggi dovrebbe esserne consapevole. Dovrebbe vivere il percorso che ha contrassegnato di morte e dolore gli ultimi tre anni di storia siriana con una consapevolezza nuova dell’animo, dovrebbe mostrare di aver capito che il ritiro della forza americana e occidentale dal medio oriente ha offerto il destro alle peggiori efferatezze, dall’assadismo vittorioso e mortifero allo Stato islamico sterminatore di minoranze religiose e di cristiani, alle chiese distrutte, alle popolazioni messe in fuga, all’esodo di milioni di rifugiati e profughi. Dovrebbe proprio esserne consapevole, detto con rispetto e comprensione per la fatica indicibile di fare il Papa, di essere il Papa, in un mondo tanto complicato e oscuro.
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