Il grande gioco della Jeep
I cinesi su Fiat Chrysler. Difficile, a meno che Trump non faccia un patto con la Corea via Xi e Marchionne
Se un giorno d’estate Kim Jong-un, Xi Jinping, Donald Trump e Sergio Marchionne si mettessero d’accordo? Se la Jeep, il glorioso marchio che ha accompagnato le truppe americane alla vittoria in Europa e in Asia, diventasse il pegno per un patto tra le due sponde del Pacifico? Fantapolitica e fantaeconomia, naturalmente, eppure in questo modo potrebbe avere una ben diversa sostanza la voce messa in giro da Automotive News, la testata più autorevole in campo automobilistico, secondo la quale alcuni gruppi cinesi (tra i quali in particolare quello chiamato Grande Muraglia, in inglese Great Wall, in cinese Changcheng) sono interessati a comprare Fiat Chrysler per estrarre i marchi e gli stabilimenti di suv e pick-up dal resto della produzione automobilistica che in Cina non ha avuto alcun successo. Cedere la Jeep sarebbe ammainare la gloriosa bandiera a stelle e strisce per Trump che ha proclamato America First e la difesa del Made in Usa perinde ac cadaver. Tuttavia, The Donald potrebbe restare nella storia come l’improbabile presidente che ha evitato una guerra nucleare, sulla scia insomma di John Fitzgerald Kennedy l’ipermitizzato Jfk. Ma vediamo innanzitutto i fatti o meglio i rumori fuori scena.
Secondo Automotive News, “rappresentanti di un ben noto produttore automobilistico cinese hanno presentato un’offerta questo mese per comperare l’intera Fca pagando un premio di poco superiore al valore di mercato. L’offerta è stata respinta perché non è stata ritenuta sufficiente”. Non è chiaro chi sia il potenziale acquirente forse la Donfeng (azionista di Peugeot) o la Geely (la stessa che possiede la svedese Volvo). Ma secondo il giornale di Detroit, manager della Fca si sono recati recentemente in Cina per incontrasi con esponenti della Great Wall, in testa alle classifiche in patria per numero di suv venduti, oltre a essere il principale costruttore privato. L’azionista di riferimento è l’imprenditore Wei Jianjun, il quale ha una ricchezza stimata in quasi 8 miliardi di dollari e detiene il 40 per cento delle quote azionarie, mentre al secondo posto con il 30 per cento del capitale c’è la municipalità di Baoding, 140 chilometri a sud di Pechino, città natale di Wei, dove ha sede la società. Great Wall è stato il primo gruppo automobilistico a quotarsi in Borsa a Hong Kong nel 2004. In Europa è presente solo in Bulgaria dove produce due veicoli in vendita in Italia il suv H6 e il pick-up Steed6. Nel 2006 ha lanciato una utilitaria molto simile alla Panda e la Fiat, allora senza Chrysler, ha intentato una causa legale. Le informazioni, dunque, sono ancora incerte e contraddittorie; secondo molti analisti del settore, più che di una vendita in blocco, potrebbe trattarsi di un’alleanza per produrre i veicoli che hanno sfondato già in Europa come la Jeep e la Ram. Una via razionale sul piano industriale, così come lo è quella scelta dalla Fca per i veicoli a guida autonoma insieme a Bmw e Intel.
I cinesi sarebbero interessati ai marchi e agli stabilimenti di suv e pick-up, mentre Marchionne cerca da tempo un accordo a tutto campo
Marchionne continua a battere sullo stesso chiodo, l’alleanza tra i costruttori, rimirando il titolo che sale in Borsa. Ma fino a che punto è plausibile un matrimonio in grande stile che comprenda l’intera Fist-Chrysler? Scrive lo storico Giuseppe Berta sul Sole 24 Ore: “Le possibilità concrete sembrano scarse e difficili: da un lato, con le difficoltà dell’industria automobilistica tedesca, è venuta meno la possibilità di un accordo con Volkswagen, che non è mai stato davvero in campo. Dall’altro, esiste un rilevante vincolo politico per Fca, costituito dalla volontà dell’amministrazione Trump di preservare un forte vincolo sui marchi di successo del portafoglio Chrysler come Jeep e Ram: mai come adesso appare impensabile che essi cadano sotto il controllo di un gruppo a proprietà cinese. Questa considerazione, in particolare, pare sbarrare la strada a ogni negoziato”.
Ai cinesi, insomma, interessano Jeep e Ram, mentre Marchionne cerca da tempo un accordo a tutto campo. E’ stato sconfitto in Germania nel 2009 quando voleva la Opel poi finita alla Peugeot la quale a sua volta aveva respinto più volte i ripetuti tentativi di mettersi insieme che risalgono già a quando erano ancora in vita i fratelli Agnelli. La casa francese è stata poi costretta ad aprire il capitale alla Dongfeng che oggi detiene il 14 per cento, tanto quanto la famiglia Peugeot e il governo di Parigi che si è messo in mezzo per esercitare il suo occhiuto presidio colbertista (come vuole fare, del resto, anche con i cantieri navali di St. Nazaire acquistati dalla Fincantieri). Ma il no più clamoroso Marchionne lo ha ricevuto dalla General Motors, in realtà dal top management più che dalla miriade di fondi e azionisti finanziari, in particolare dalla boss Mary Barra. “Soli non possiamo stare”, insiste da sempre il gran capo della Fiat e l’acquisizione della Chrysler, un colpo magistrale ancora tutto da capire fino in fondo, non è sufficiente vista la estrema debolezza del gruppo italo-americano (incorporato in Olanda), sul mercato asiatico dove si vende ormai il 50 per cento delle auto prodotte nel mondo.
L’ultimo flop in Cina è recentissimo. La joint venture Fca-Gac che nel 2012 ha avviato la produzione di due auto, ovvero dei modelli Fiat Viaggio (chiamata Fei Xiang in Cina) e Fiat Ottimo nello stabilimento di Changsha, è stato un clamoroso fallimento, tanto che Marchionne ha deciso di mettere fine alla produzione. Le due vetture erano state progettate sulla base della piattaforma della Alfa Romeo Giulietta, impiegata anche sulla Dodge Dart, ma non sono piaciute ai cinesi che hanno comperato appena 70 mila vetture nel 2014, 30 mila nel 2015 e 13 mila nel 2016. La capacità produttiva degli impianti è di 140 mila pezzi l’anno e la Fca ha deciso di utilizzarli per le Jeep Cherokee, Renegade e Compass piazzando già 130 mila auto dal gennaio 2016 al marzo di quest’anno. Anche questo è un test indicativo delle preferenze del mercato. La Fiat ha perso la sua grande occasione fin dagli anni Ottanta, quando Deng Xiaoping inviò i suoi emissari a Torino per proporre a Cesare Romiti di andare a produrre nell’Impero di Mezzo. Sia gli Agnelli sia lo stesso Romiti non capirono quanto sarebbe stato importante arrivare primi. Gli azionisti lo ritenevano troppo costoso e incerto, il management pensava che la Cina avrebbe avuto bisogno non di berline, ma di furgoncini, l’esatto contrario di quel che sarebbe accaduto di lì a poco. A quel punto i missi dominici del capital-comunismo si diressero a Wolfsburg e la Volkswagen li accolse stendendo il tappeto rosso. Il resto è cronaca.
Un'analisi industriale dice che senza i bocconi migliori non resta che chiudere sia Fiat sia Chrysler. Una analisi geopolitica apre altri scenari
Ma che cosa hanno in mente i cinesi? La loro strategia è chiara: espandersi all’estero e penetrare negli Stati Uniti. Finora le loro auto non avevano la qualità sufficiente per competere, adesso il divario si è ridotto in modo notevole spiega Michael Dunne che analizza il mercato da Hong Kong. Le disponibilità finanziarie non mancano: l’agenzia Bloomberg calcola che le imprese cinesi nel loro complesso hanno programmato di spendere 1.500 miliardi di dollari in acquisizioni all’estero nel prossimo decennio, con un aumento del 70 percento rispetto al passato. Secondo Dunne l’interesse per la Fca non è fittizio. Nel maggio dello scorso anno Marchionne ha ospitato nel suo quartier generale nordamericano una delegazione cinese di alto livello, guidata da Hu Chunhua, membro dell’ufficio politico del Partito comunista e segretario del partito nel Guandong (la regione di Canton). C’erano anche Cui Tiankai, ambasciatore cinese negli Stati Uniti e Zhang Fangyou presidente del Guangzouh Automobile Group.
Il capital-comunismo sta penetrando in profondità nel Vecchio continente anche nel settore automobilistico. Nel 2010 la Geely ha acquisito la Volvo. Poi la Chem China ha preso il controllo della Pirelli. Infine, l’accordo Peugeot-Donfeng. L’operazione Volvo non è avvenuta senza resistenze. In fondo il marchio è uno dei simboli della potenza industriale svedese e in patria ha ancora una quota di mercato dominante. Ma le cose sono andate bene sul piano industriale. I cinesi hanno preso possesso del comando strategico, lasciando agli svedesi la parte squisitamente manifatturiera. Nella prima fase hanno rilanciato le componenti nazional-culturali, con una campagna pubblicitaria che mostrava la vettura nel suo ambiente naturale, sulle rive del Baltico come in mezzo alle foreste di abeti e betulle. Adesso vuol compiere un salto tecnologico notevole: dal 2019 comincerà a produrre solo auto elettriche o ibride, diventando così la testa di ponte in occidente per la Geely che è già il primo produttore di quattro ruote elettriche in Cina (265 mila vetture solo elettriche di ogni marca sono state vendute lo scorso anno) ed è l’unica compagnia a esportare anche negli Stati Uniti. La Volvo oggi ha una taglia troppo piccola per competere con i giganti dell’auto, tuttavia il superamento completo del motore a scoppio potrebbe trasformarla in un leader nelle quattro ruote di nuova generazione.
Il flop cinese: la joint venture Fca-Gac che nel 2012 ha avviato la produzione di due auto è stata un clamoroso fallimento
L’America è pronta a farsi penetrare direttamente o indirettamente? Non sembra proprio. Il neoprotezionismo di Trump fa pensare tutto il contrario. Il presidente, però, non può non sapere che una cosa sono i proclami propagandistici, tutt’altra è la realtà. L’addio dei big boss che componevano il consiglio economico, sconcertati dalle ultime uscite (in particolare la giustificazione dei nazi-sudisti di Charlottesville) fa pensare che The Donald sia destinato a restare sempre più solo. In ogni caso, ha ricevuto dai suoi elettori un chiaro mandato per difendere l’industria nazionale e gli sarà davvero difficile mollare una bandiera come la Jeep, a meno che non siano in ballo questioni di sicurezza nazionale, che nel caso del braccio di ferro con la Corea del Nord sono davvero questioni di vita o di morte.
Ma prima di inoltrarci nel grande gioco nucleare, chiediamoci quali sarebbero a questo punto gli interessi degli eredi Agnelli e degli azionisti di Fca. Molti hanno avanzato l’ipotesi spezzatino. Oggi Ferrari vale 20 miliardi di dollari due in più di tutto il gruppo Fca (nonostante le voci abbiano fatto subito salire il titolo di ben 8 punti percentuali). Perché non fare lo stesso con Maserati e Alfa Romeo, poi con con Jeep e Ram, scorporando i marchi di maggior valore quotandoli in Borsa? Senza dubbio potrebbe entrare un bel gruzzolo in casa Elkann, sostengono gli analisti della Morgan Stanley. A quel punto, però, varrebbe davvero la pena vendere? L’idea di concentrarsi solo sui segmenti alti va avanti da molto tempo, ma che fare degli stabilimenti che producono per il mercato di massa, chi mai li potrebbe comprare?
Dunque, un’analisi schiettamente finanziaria sconsiglia di cedere i marchi dai quali estrarre i maggiori guadagni. Un’analisi industriale arriva alla conclusione che senza i bocconi migliori, non resta che chiudere sia la Fiat sia la Chrysler. Un’analisi geopolitica, però, apre scenari finora impensati.
Tra poco si riunirà il 19esimo congresso del Partito comunista cinese e Xi Jinping vuole arrivarci da assoluto vincitore, con un potere pari solo a quello di Mao Tsedong all’apice del suo regime. Ha stroncato molti oppositori con le continue purghe anti-corruzione. E ha messo sull’avviso i magnati della nuova Cina, sia i dragoni rossi, sia la miriade di capitalisti nati dalle riforme di Deng Xiaoping: dovete riportare in patria i capitali, investire nell’ultima grande modernizzazione che faccia della Cina una potenza industriale matura, dovete ridurre i debiti di banche, imprese, amministrazioni locali e famiglie che minano la crescita, proprio come ha avvertito il Fondo monetario internazionale, inoltre dovete mettere i quattrini (la Cina risparmia quasi la metà del reddito prodotto) in aziende che soddisfino la domanda interna, ciò vale in particolare per chi investe all’estero. Niente operazioni spericolate, niente cose oscure come l’acquisto del Milan. Anche perché c’è bisogno di riprendere in mano un settore finanziario che sembra refrattario a ogni cambiamento.
Di bolla in bolla (immobili, prestiti facili, erogazioni clientelari delle banche, speculazioni di vario genere) il debito, secondo il Fondo monetario è arrivato al 235 per cento del prodotto lordo e potrebbe salire al 290 per cento. Ciò ha consentito di mantenere una crescita del 6,7 per cento quest’anno, ma mettendo a rischio la stabilità. Addio Era dell’armonia, addio riconversione interna, addio consenso politico. Dunque è prioritario ridurre i rischi derivanti da investimenti sbagliati, o anche soltanto eccessivi, all’estero. La Dalian Wanda, il colosso dell’immobiliare e dell’intrattenimento, è stata messa nel mirino e le autorità hanno sanzionato il suo proprietario Wang Jianlin per aver violato le norme sulla esportazione di capitali. L’acquisizione della Jeep potrebbe essere una bandiera importante per l’apoteosi della Cina di Xi. Ma perché mai Trump dovrebbe consentirlo? Per le insistenze di Marchionne che non ha mai mostrato una ostilità preconcetta verso The Donald (al contrario di molti dei top manager americani)? No, perché Pechino potrebbe mettere a freno quel pupazzone impazzito che comanda a Pyongyang spingendolo ad accettare un negoziato per la rinuncia all’armamento nucleare, offrendo a Kim sempiterna protezione politica e militare.
Fantasie di mezz’agosto, mentre la calura obnubila le menti e spegne il desiderio. Ma attenzione, i grandi cambiamenti (uno per tutti, quando Richard Nixon il 15 agosto 1971, decise di tagliare il cordone ombelicale tra dollaro e oro) sono maturati proprio nel tempo che Augusto aveva destinato alle ferie ed Enrico Cuccia, chiuso in splendida solitudine nel suo studio in Mediobanca, dedicava invece a geniali quanto ingarbugliati piani per mettere al sicuro le grandi famiglie del capitalismo italiano, a cominciare dagli Agnelli e dalla Fiat. Al banchiere non era piaciuta molto l’alleanza presto fallita con General Motors e, secondo l’Avvocato, aveva suggerito le nozze con la Daimler (circostanza poi smentita). Chissà cosa avrebbe mai pensato della Grande Muraglia.
Il Foglio sportivo - in corpore sano