Perché Padoan e Renzi dicono una mezza verità quando parlano dei successi del governo sulla spesa pubblica
Al direttore - “I tagli alla spesa pubblica fatti fino a ora ammontano a 25 miliardi di euro. Abbiamo tagliato talmente tanto che è difficile andare oltre”, ha dichiarato nei giorni scorsi Renzi. Parlando prima alla Camera e poi al Senato, ha spiegato che l’unico modo per diminuire la pressione fiscale “dopo 25 miliardi di tagli” è di finanziare la riduzione delle tasse in disavanzo, ossia attraverso margini di finanza pubblica derivanti dall’attivazione da parte dell’Europa delle clausole di flessibilità: “Senza la flessibilità”, secondo il premier, “non ci riuscirebbe neanche Mago Merlino”.
Effettivamente, 25 miliardi di tagli (circa un punto e mezzo di pil) non si erano mai visti nell’ultimo decennio: dal 2004 al 2014, le uscite pubbliche non hanno fatto altro che aumentare, passando da 678 miliardi di euro (46,8 per cento del pil) a 826 miliardi di euro (51,2 per cento del pil). Per l’anno in corso, tuttavia, l’Eurostat prevede una prosecuzione della tendenza in atto, con la spesa che dovrebbe attestarsi a 835 miliardi di euro.
Ma, allora, come deve essere interpretata la cifra dichiarata dal governo di “25 miliardi di tagli”? La risposta la si trova sul sito del ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) in una breve nota dal titolo “Quanto pesa la Spending Review”? Il comunicato precisa che i risparmi per 25 miliardi di euro realizzati nel 2016 – grazie a iniziative intraprese tra il 2014 e il 2015 e alla legge di Stabilità 2016 – “hanno consentito di finanziare alcune delle misure a sostegno della crescita e dell’occupazione”. I dettagli di queste misure non sono illustrati nella Nota, tuttavia una cosa è chiara: i tagli effettivi non possono essere 25 miliardi di euro dal momento che sono stati utilizzati per coprire incrementi di “altra” spesa pubblica.
Per sapere a quanto ammontano i tagli “netti” per il 2016, anche in questo caso, bisogna andare sul sito del Mef. Nella tabella a pagina 4 del documento redatto dalla Ragioneria generale dello stato (“La Manovra di Finanza Pubblica per il 2016-2018”), si evince che, per l’anno 2016, la cifra totale della “variazione netta delle spese” è pari a 360 milioni di euro, di cui 41 di spesa corrente e 319 di spesa in conto capitale.
Da dove deriva, quindi, la differenza tra le cifre pubblicate e quelle dichiarate? Semplice, dalla differenza tra la parte di spesa pubblica realmente “tagliata” e quella semplicemente “riqualificata”. In effetti, l’obiettivo della spending review non è solo quello di contenere la spesa (revisione quantitativa) ma anche quello di riallocarla verso impieghi più efficienti e più produttivi (revisione qualitativa). Quello che emerge dai dati è che il governo, più che tagliare la spesa pubblica, l’ha spostata da un capitolo a un altro: una linea destinata a proseguire con l’implementazione della riforma della pubblica amministrazione. Del resto, che questo sarebbe stato l’approccio seguìto lo aveva precisato lo stesso ministro della Funzione pubblica al momento della presentazione del ddl delega: “Non so quanti risparmi porterà la riforma della Pubblica Amministrazione e sono contenta di non saperlo perché l’impostazione non è di spending review: non siamo partiti dai risparmi”.
Insomma, tagliare non sembra essere una priorità. “L’austerità non fa crescere” ha ribadito Renzi in diverse occasioni. Una affermazione che, però, non sembra essere supportata dai dati. I paesi che nell’ultimo quinquennio hanno tagliato la spesa pubblica come l’Inghilterra (dal 48,8 al 43 per cento), la Spagna (dal 46 al 43,3 per cento) o l’Irlanda (dal 47,2 al 35,9 per cento) crescono, rispettivamente, del 2,3 per cento, del 3,2 per cento e del 6,9 per cento. L’Italia, che nello stesso periodo ha incrementato la spesa pubblica dal 49,9 al 50,7 per cento, è ferma allo 0,8 per cento.
Veronica De Romanis
Di solito, poi, chi di anti austerità ferisce di anti austerità perisce. Grazie.