Cene, riunioni, scenari
Giochi di potere e dopo Renzi. Dove portano le acrobazie di Franceschini
Roma. Qualche anno fa, per spiegare le meccaniche interne al partito che di lì a poco avrebbe scalato, Matteo Renzi metteva su uno sguardo sornione e faceva il verso alla pubblicità Barilla: “Dove c’è Franceschini c’è maggioranza”.
E dov’è Dario Franceschini adesso? Ah, saperlo!
Dissipatamente geniale nell’abbandonare la casa sempre un minuto prima che prenda fuoco, questo abile navigatore di corrente e di fazione, momentaneamente prestato al ministero dei Beni culturali, ha ripreso a farsi vedere in giro, la sera, nei ristoranti, in tavolate con deputati e senatori del Pd, intorno a fontana di Trevi, dietro Montecitorio, in via delle Muratte, ritrovi d’una corrente riemersa alla luce del sole, riunioni dall’aria drammatica in cui vige un sistema di conferenze alternate: ognuno dei partecipanti – e ci si può imbattere persino nei due capigruppo del Pd, quello della Camera e quello del Senato, Ettore Rosato e Luigi Zanda – ha il suo pezzetto di malesseri e di timori da spiegare, che gli altri, Marina Sereni, Antonello Giacomelli, Francesco Saverio Garofani, cioè una vicepresidente della Camera e due sottosegretari, ascoltano con sorrisi malinconici ed esclamazioni ammirative, tutta una specie di ronzio da cui escono ombre di discorsi intorno alla tenuta del governo, alla legge elettorale, al congresso del Pd, all’incerto destino di Renzi e alla gestione del potere romano. Parole che per tono e frequenza, ai partecipanti, ricordano quelle che due anni fa venivano scambiate intorno a Franceschini poco prima che lui decidesse di scaricare Enrico Letta per imbarcarsi con l’astro nascente della rottamazione.
Sembrano amare questo stato di fluida ambiguità e di felice incertezza che caratterizza la loro vita di corrente occulta. Ed ecco allora la frase sonora, la non elegantissima (ma chiarissima) metafora usata da Franceschini di fronte ai suoi amici e compagni, di fronte a questo gruppo eterno e per adesso renziano che al suo completo comprende quasi la metà dei gruppi parlamentari, membri della segreteria e del governo, la vicesegretaria del Pd e presidente del Friuli Debora Serracchiani, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri Federica Mogherini, il deputato Emanuele Fiano, gli ex veltroniani e gli ex fassiniani come Walter Verini e Giorgio Tonini: “Qui non è in gioco soltanto il culo di Renzi”, ha detto loro Franceschini, provocatorio, “ma quello di noi tutti”. Come dire: bisogna prepararsi al peggio, se Renzi non tiene dobbiamo avere una soluzione di riserva. Non succede, ma se succede… Ed è come un fuoco indeciso a farsi incendio o languire. “Sull’Italicum penso che verrà fatta una riflessione. Sarà Renzi a decidere se affrontare questo tema”, aveva detto, venerdì scorso, Emanuele Fiano, con la maschera di Renzi addosso ma con la voce di Franceschini in gola.
E insomma adesso, sempre più spesso, al segretario del Pd e presidente del Consiglio capita di guardarsi intorno e di non riconoscere bene i volti che lo circondano: amici, quasi amici, mezzi nemici? Esclusi Luca Lotti e Maria Elena Boschi nessuno a Roma era davvero renziano fino alle primarie vinte, qualcuno lo diventò subito dopo, e quasi tutti, nei gruppi parlamentari, si convertirono con grazia acrobatica dopo aver assistito al risultato delle famose elezioni europee del 41 per cento. Franceschini, che ha sempre avuto naso (“dove c’è Franceschini c’è maggioranza”), fu il più rapido a intercettare il giovane sindaco di Firenze. Potenza strisciante, monocorde, vecchia storia democristiana, nel 2013 piazzò cinque dei suoi uomini nella nuova segreteria di Renzi, ma contemporaneamente sosteneva anche Enrico Letta. E mentre i due litigavano, Franceschini restava in equilibrio, muto. Studiava chi fosse il più forte, quello destinato a prevalere. Quando lo capì, fu ovviamente il primo a mollare Letta. Adesso sarà anche il primo a mollare Renzi?