“Il liberismo è di sinistra” ma bisogna capire se c'è una sinistra che vuole esserlo o se preferisce le Kaste
“Concorrenza, riforme, merito dovrebbero essere le bandiere della sinistra” per non lasciare indietro nessuno. Rileggere oggi un grande saggio di Alesina e Giavazzi
Roma. Mentre sabato al Teatro Vittoria di Roma si celebrava la “rivoluzione socialista”, veniva voglia di parafrasare due signori molto importanti nella storia della sinistra. “Uno spettro s’aggira per l’Europa: lo spettro del liberismo. Tutte le potenze si sono coalizzate in una sacra caccia alle streghe contro questo spettro: il Papa e Trump, Stefano Fassina e Beppe Grillo, i tassisti romani e i sovranisti padani”. Il rigetto della società aperta, del mercato e della globalizzazione è il comune denominatore di questo rassemblement (ché accozzaglia non si può dire più). Nell’intervista al Corriere di venerdì scorso Matteo Renzi ha rivendicato la società aperta e inclusiva come cifra del suo Partito democratico, e durante la relazione all’assemblea del Pd ha ribadito che si può essere di sinistra senza necessariamente cercare rifugio nel trapassato di “Bandiera rossa”. Questo posizionamento, però, deve essere argomentato e spiegato a tutto tondo. Come ha scritto Giuliano Da Empoli sul Foglio, per sconfiggere il populismo non è più sufficiente esorcizzarlo (“non è percorribile”).
Occorre ritrovare una narrazione positiva, che metta in evidenza i benefici della globalizzazione e delle libertà economiche e civili. Occorre, in breve, ripescare un aureo libretto di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi pubblicato giusto dieci anni fa: “Il liberismo è di sinistra” (Il Saggiatore, 2007). Al momento della pubblicazione la crisi era alle porte, e il Partito democratico era sospeso tra l’adrenalina del Lingotto veltroniano e la sconfitta delle liberalizzazioni bersaniane nelle strade di Roma assediate dai tassisti (corsi e ricorsi). Un decennio dopo, Anno Domini 2017, l’Italia ancora si arrovella su come risolvere il dilemma della produttività, ma nel frattempo ha lasciato sul terreno dieci punti di pil che ha ricuperato solo in parte negli ultimi tre anni. La strada da percorrere rimane insomma quella indicata da Mario Draghi e Jean-Claude Trichet nella lettera dell’agosto 2011: fare ordine nei conti pubblici, abbassare le tasse riducendo la spesa, riformare la pubblica amministrazione, liberalizzare il mercato del lavoro e iniettare concorrenza nei servizi e nelle professioni. Qualcosa si è mosso: la previdenza pur tra molti scossoni ha trovato un suo equilibrio, il Jobs Act ha abbattuto il tabù dell’articolo 18 ponendo contestualmente le premesse per un welfare moderno, altre riforme sono intervenute o stanno intervenendo in materia di liberalizzazioni, pubblica amministrazione e giustizia. Quel che ancora manca, e che si trova invece tra i capitoli di Alesina e Giavazzi, è il file rouge: l’impalcatura teorica che dia il senso di una strategia e di un obiettivo. Per questo quel libro, forse prematuro nel 2007, è assolutamente necessario oggi.
Prima ancora che un’agenda di policy, la riflessione dei due economisti è una sfida intellettuale, che muove da un’assunzione: essere di sinistra significa avere a cuore la condizione dei più deboli. Dunque è di sinistra una politica che aiuti gli ultimi a migliorare la propria situazione, dia fiato agli outsider, scardini le posizioni di rendita. “Concorrenza, riforme, merito dovrebbero essere le bandiere della sinistra”, scrivono, perché in un contesto come quello italiano l’equità non entra in conflitto con l’efficienza economica, ma ne è la logica conseguenza. Aprire i mercati – e aprirsi ai mercati – significa mettere sotto accusa le rendite, e con esse la logica feudale dell’appartenenza a una classe sociale per diritto di nascita: infatti “una società in cui c’è scarsa concorrenza, in cui nell’impiego pubblico, che supera il 10 per cento di tutti i posti di lavoro, si fa carriera per anzianità e non per merito, è una società in cui il futuro finisce per essere determinato dal censo”. Alle nuove povertà si risponde anzitutto con politiche che promuovano la creazione di reddito e ricchezza, investimenti e occupazione, perché ridistribuire all’interno di un’economia che tende a restringersi è sempre meno efficace. Concretamente, declinare a sinistra il liberismo significa inquadrare la politica economica (e anche, su un altro piano, la questione delle libertà civili) nel contesto della mobilità sociale. Il liberismo di sinistra si muove, allora, su quattro gambe, che in buona parte riprendono il cammino in parte avviato dal governo Renzi. La prima è il merito, e riguarda soprattutto il settore pubblico (a partire da scuola, università e giustizia).
La seconda gamba è quella delle liberalizzazioni, specie nei settori dove l’innovazione tecnologica ha cambiato i modelli di business (come nel vasto mondo delle piattaforme online) o nei quali la regolamentazione ha imposto forme di organizzazione ormai superate (è il caso delle farmacie, dei notai e dei prezzi amministrati per elettricità e gas). Un terzo terreno è quello della dimensione e il ruolo dello stato: per abbassare le tasse è inderogabile la razionalizzazione delle sue funzioni e il conseguente taglio della spesa pubblica. Ultimo, e forse più importante, è il mercato del lavoro: il Jobs Act ha avviato un profondo ripensamento: ora bisogna completarlo, dando sostanza a quelle politiche attive che sono il contraltare della flessibilità e la risposta più efficace alla necessaria riallocazione dei fattori produttivi. Se queste forze fossero messe in moto, la risultante sarebbe un’esplosione di opportunità. Certamente ciò metterebbe in discussione molte posizioni di rendita, ma parallelamente darebbe nuovi orizzonti a tutti quegli individui che vogliono impegnarsi e rischiare, anziché vivere comodamente all’ombra della fragile certezza che le cose non cambieranno mai.
L’intera questione si può riassumere allora in una semplice domanda: la sinistra vuole intestarsi la battaglia per l’inclusione sociale, il progresso e la creatività? Oppure preferisce ritrovarsi di volta in volta ostaggio di tassisti e farmacisti, ambulanti e notai, sindacati e monopolisti pubblici o privati? Vuole difendere i privilegi messi in crisi dalla globalizzazione e dal progresso, oppure il rimescolamento sociale acceso proprio da globalizzazione e progresso? L’opzione sottostante è anzitutto culturale, e riguarda la percezione stessa che ciascuno ha di sé. Come scrivono Alesina e Giavazzi, “affinché merito e concorrenza si affermino occorre che i cittadini si riconoscano come tali, vale a dire come contribuenti e consumatori; non solo, o non principalmente, come membri di una corporazione o di una classe”. La scelta è in fondo banale: è quella tra una società in cui reddito e status si ereditano (o si sposano), e una dove invece si conquistano e si guadagnano. Il liberismo può essere di sinistra: resta l’interrogativo se vi sia una sinistra che voglia essere liberista. Proprio nel momento in cui la “shining city upon a hill” si chiude trumpianamente a riccio, la sinistra può ripartire in Italia facendo proprie le parole immortali scolpite alla base della Statua della libertà: “Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi”.